Giugno 26, 2025 morenomaugliani

Manuale di sopravvivenza al tempo degli algoritmi

Gentiluomini e gentildonne del passato che utilizzano lo smartphone.

Ci sono letture che arrivano come un’eco, altre come un presagio. L’intervista a Nicholas Carr che ho terminato ieri appartiene alla seconda categoria. Mi ha attirato perché Carr è uno scrittore, e gli scrittori possiedono un sismografo speciale per le scosse che attraversano la cultura. Ma soprattutto, mi ha attirato perché la sua tesi è un sasso lanciato nello stagno della nostra confortevole narrazione digitale.

La rivoluzione che stiamo vivendo, dice Carr, non è l’avanzamento che molti professano e quasi tutti danno per scontato. La sua posizione si ancora a un’osservazione tanto semplice quanto sovversiva:

L’iperconnettività in cui ci troviamo oggi non porta a una comunicazione migliore. Al contrario, la peggiora.

È una contro-narrazione, un sentiero che si allontana dalla via maestra. Da quando internet è diventato l’aria che respiriamo, la nostra capacità di concentrazione si è fatta più labile. Fatichiamo a restare su testi lunghi e complessi, la nostra mente, come un animale irrequieto, cerca costantemente una via di fuga. Il tempo stesso ha cambiato forma, si è compresso. Tutto deve essere immediato, a portata di mano, controllabile. Illudendoci, come scrive il filosofo Hartmut Rosa, che la realtà sia qualcosa che possiamo addomesticare.

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Immaginiamo il nostro pensiero come una T. Il tratto orizzontale rappresenta l’estensione della nostra conoscenza, la quantità di stimoli che riusciamo a intercettare. Quello verticale ne è la profondità. I due sono inversamente proporzionali: se uno cresce, l’altro si contrae. L’era in cui viviamo ha disegnato una T con una barra orizzontale smisurata e un’asta verticale quasi invisibile. Siamo diventati esploratori di superfici infinite, ma abbiamo perso la capacità di scavare.

Questa non è una colpa, ma un adattamento. Siamo esposti, in media, a 34 gigabyte di informazioni ogni giorno. Una valanga per cui il nostro cervello, un organo magnifico forgiato per la sopravvivenza nella savana, non è attrezzato. Il suo sistema operativo non è aggiornato alla velocità dei cambiamenti che abbiamo innescato. E così, per non soccombere, adotta una strategia: analizza e categorizza tutto nel minor tempo possibile. Un triage costante che alimenta la polarizzazione, perché per distinguere in fretta servono etichette nette, bianchi e neri.

Questa non è un’intuizione moderna. Più di un secolo fa, il sociologo Charles Horton Cooley identificò nelle tecnologie della comunicazione il motore primario del cambiamento sociale. Scoprì qualcosa di fondamentale:

Il modo in cui comunichiamo – non tanto ciò che comunichiamo – stabilisce il modo in cui pensiamo e agiamo.

Il mezzo non è neutrale, è l’architetto invisibile dei nostri pensieri. E il nostro mezzo ha eliminato quasi del tutto la “frizione”. Era proprio la frizione delle attività analogiche a rivestirle di significato. C’era una volontà precisa, una curiosità mirata dietro al gesto di prendere una rivista, mettere su un disco, aprire un libro. L’assenza di un’infinità di alternative costringeva all’attenzione. Con un lettore CD portatile avevi quel disco, e le opzioni erano ascoltarlo fino a carpirne le sfumature o non ascoltarlo affatto. Oggi, se una canzone non ci cattura in trenta secondi, annega in un oceano di milioni di altri brani.

L’automatizzazione dei processi ci ha semplificato la vita, ma come evidenziava già Carr nel 2014 in The Glass Cage, ci ha privato del valore che nasce dallo sforzo, dall’investire tempo ed energia per ottenere qualcosa.

Ma il vero punto di svolta, il momento in cui abbiamo ceduto la regia, ha una data precisa: 2006. Con l’introduzione del Newsfeed, Facebook smette di essere una bacheca gestita dall’utente e diventa un flusso curato da un algoritmo. La cosa più incredibile è che accogliemmo questa novità con entusiasmo, come un segno di progresso. Stavamo consegnando le chiavi della nostra cultura a un guardiano di cui non conoscevamo il volto, né le intenzioni.

Mi fa pensare al perché ho lasciato Spotify, o alla battaglia persa contro i DRM sui libri. La domanda è sempre la stessa: chi ha in mano la nostra cultura? Dove finirà il nostro pensiero critico, se il percorso ci viene indicato? Dove il nostro gusto, se non lo formiamo più per scoperta ma per suggerimento?

La grandezza dell’amore è inseparabile dalla profondità della mente, la larghezza della mente corrisponde alla profondità del cuore; per questo i cuori grandi raggiungono i vertici dell’umanità, e sono anche grandi menti.

Ivan Aleksandrovic Gončarov

Sarebbe un errore, però, attribuire tutta la colpa agli algoritmi. Sarebbe troppo facile. Gli algoritmi non generano disinformazione, fake news o odio. Gli algoritmi sono specchi che amplificano. Mettono in circolo i contenuti che funzionano meglio, quelli che generano più reazioni. E se quei contenuti sono richiesti, significa che qualcuno li crea e molti, moltissimi altri, li condividono.

La vera domanda, quindi, è un’altra: perché siamo così attratti dalla disinformazione, dalla rabbia, dalla polarizzazione? La risposta ha a che fare con le nostre debolezze più antiche: il negativity bias, la nostra tendenza a dare più peso alle notizie negative, e tutta una serie di distorsioni cognitive che abitano il nostro inconscio. In un’epoca che ci spinge costantemente verso l’esterno, siamo sempre più alla ricerca di distrazioni per evitare il confronto con il nostro mondo interiore, con il nostro sconforto emotivo.

Oggi, chi cerca un senso è visto come un nostalgico, un individuo fuori tempo massimo. Blaise Pascal diceva: “Guai a coloro che non conoscono il senso della propria vita: eppure la convinzione che è impossibile conoscerlo è così diffusa tra la gente che si esalta persino come saggezza il non desiderare di conoscerlo.” 

Eppure, è proprio da qui che potrebbe nascere il cambiamento. Secondo Carr, non verrà da una nuova tecnologia, ma da una reazione umana. Verrà da una generazione che, per la prima volta, sarà cresciuta completamente consapevole di questa espropriazione della cultura e della comunicazione. E come la generazione degli anni ’60 si ribellò al conformismo dei padri, questa nuova generazione potrebbe sentire il bisogno impellente di riappropriarsi della profondità. Di disconnettersi per riconnettersi davvero. Di ritrovare il silenzio necessario per ascoltare il proprio pensiero.

Forse, la vera rivoluzione non sarà tecnologica, ma sarà una rivoluzione dell’attenzione.

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