Novembre 17, 2025 morenomaugliani

Quando l’Azione Rivela Chi Siamo

Una Nota su Heidegger e la Paura

scrivania con libri e calamaio per riflessione filosofica

Negli ultimi giorni ho raccolto appunti leggendo un testo su Heidegger. Non avevo un obiettivo preciso: volevo semplicemente capire meglio perché il suo pensiero continua a tornare nelle conversazioni sulla libertà, l’autenticità, e il modo in cui abitiamo il mondo.

La prima cosa che mi ha colpito è il modo in cui rilegge Aristotele.
Praxis e Poiesis sono per Aristotele 2 delle tre forme di attività (la terza e l’attività teoretica).
Nella Praxis, l’attività ha il fine in sé stessa. L’esempio che lui porta è il suonare uno strumento musicale. In questo caso il fine dell’attività è l’attività stessa. Quando cessiamo di suonare, cessa anche il suono. Il manifestarsi del suono coincide quindi con il manifestarsi di colui che suona.
Nella Poiesis invece, il fine dell’attività è oltre gli atti stessi. Nel testo viene dato l’esempio del costruire un tavolo di legno. Il prodotto finale (il tavolino) compare soltanto quando l’attività del produttore è cessata.

Heidegger prende questi due concetti e li rivisita in chiave ontologica. Diventano due modi in cui l’essere umano si manifesta oppure si nasconde: se agiamo come produttori, l’azione svanisce nel risultato. È Poiesis: il gesto scompare nell’oggetto.
Se invece agiamo come agenti in senso proprio, l’azione si mostra. È Praxis: ciò che facciamo rivela qualcosa di noi.

Questa idea mi ha spostato il baricentro. Non è una questione morale o tecnica.

Heidegger collega questa dinamica alla distinzione tra esistenza autentica e inautentica.

L’esistenza inautentica non è una vita priva di valori, o immorale, ma una vita basata sull’attività poietica. L’uomo diventa completamente dipendente dagli strumenti che dovrebbero aiutarlo a vivere.

L’esserci si disperde nei mezzi di cui fa uso.

L’esistenza autentica, al contrario, è quella basata sulla Praxis. Secondo Heidegger infatti, la prassi (il fare) ha il primato sulla teoria. Una differenza sostanziale con i filosofi e pensatori passati (da Socrate a Husserl, passando per Seneca), secondo cui l’uomo accede a sé stesso grazie a un atto di riflessione interiore.

La seconda cosa che mi ha colpito è che, per Heidegger, sono i fenomeni esistenziali (stati d’animo) i modi in cui l’essere si rivela a sé stesso. Ed è qui che entrano in scena emozioni che di solito consideriamo negative.

La paura, per lui, è uno dei fenomeni attraverso cui l’esserci può rivelarsi. Ma può anche diventare una fuga: ci libera temporaneamente dall’obbligo di essere liberi, dall’incombenza di scegliere (leggi a questo proposito L’illusione delle scelte infinite). L’angoscia è diversa. Non nasce da qualcosa che temiamo, ma dal modo in cui il mondo, improvvisamente, perde significato. È una scossa che disfa l’inautenticità e apre spazio a un nuovo modo di esistere.

Trovo sorprendente che per Heidegger siano proprio questi stati a offrire un varco verso l’autenticità. Non sono ostacoli: sono segnali.

Quello che non mi è ancora chiaro è come distinguere, nella vita quotidiana, i momenti in cui un’emozione mi rivela qualcosa da quelli in cui mi sta semplicemente spingendo a fuggire.
È un confine sottile. A volte penso che l’angoscia possa rivelare; altre volte mi sembra una forza che chiude.

Continuo però a tornare a questa immagine: l’azione che si mostra.
Mi chiedo come cambierebbe il mio modo di lavorare, di insegnare, di imparare, se osservassi più attentamente quando il mio fare è un vero gesto e quando invece è solo produzione.

Forse il primo passo verso un’esistenza più autentica è imparare a riconoscere la differenza. Non in astratto, ma nel ritmo delle nostre giornate.

È qui che intendo continuare la mia esplorazione: nel vedere se, e come, queste idee riescono a illuminare piccole decisioni quotidiane — quelle in cui spesso non ci accorgiamo nemmeno di esserci.

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