Giugno 2, 2025 morenomaugliani

Israele dall’interno: il coraggio di disobbedire

gruppo di soldati obiettori di coscienza

Tempo di lettura: 6 minuti

Autore: Moreno Maugliani


Ho letto l’articolo Grenzen aan gehoorzaamheid di Simone Korkus, pubblicato su De Groene Amsterdammer 149 n. 20. Mi ha colpito profondamente perché in questo periodo ho finalmente ceduto alla reticenza e alla codardia di non esprimermi sulla tragedia in corso in Palestina.

Mi ha incuriosito anche perché affronta una realtà quasi completamente ignorata dalla stampa occidentale: l’obiezione di coscienza all’interno dell’esercito israeliano. È un fenomeno reale, crescente, e per questo probabilmente rimosso dal dibattito pubblico internazionale.

La frase che mi ha colpito di più è di Mattan Helman:

“Chi è pro-Israele ignora e rinnega ogni forma di critica a Israele. Chi è pro-Palestina non accetta niente proveniente da Israele.”

Una sintesi spiazzante e lucidissima di una situazione che troppo spesso ci costringe a scegliere una bandiera invece di affrontare la complessità.

Eppure, i movimenti interni di resistenza esistono. E crescono. Di conseguenza, aumenta anche lo scontro sociale. Uri Tyroler, patriota e combattente, sostiene che l’unica rivoluzione possa e debba avvenire dall’interno. La situazione è così tesa che, secondo Yair Lapid, leader dell’opposizione, Israele potrebbe precipitare in una guerra civile.

La resistenza dei militari è iniziata nel 2023, quando 41 riservisti si sono rifiutati di prendere parte all’attacco a Rafah. Secondo loro, una guerra prolungata e sproporzionata metteva solo più in pericolo ostaggi e civili innocenti. Anche a causa della narrativa dominante dei media israeliani, la loro opposizione non nasce tanto dalla compassione per i palestinesi, quanto dall’assurdità strategica del sacrificio di 891 soldati per salvare 59 ostaggi. Ventotto di loro si sono tolti la vita.

In questo contesto, la figura di Uri Tyroler assume un significato particolare. Cresciuto con il mito delle armi, lucidava l’uzi del padre a cinque anni. Dopo il 7 ottobre 2023 ha imbracciato le armi per difendere Israele come comandante di una unità civile. Ma sei mesi dopo è arrivata la consapevolezza:

“Più danni, distruzione e dolore infliggiamo agli abitanti di Gaza, più mettiamo a repentaglio la vita degli ostaggi e più difficile sarà raggiungere la pace.”

Secondo Tyroler, questa guerra e il rifiuto di negoziare non servono più a difendere Israele, ma solo a mantenere Netanyahu al potere.

Dopo quei primi 41 soldati, l’obiezione di coscienza si è diffusa rapidamente: oltre 11.000 tra riservisti, piloti, agenti del Mossad, medici, funzionari della sicurezza e membri dell’intelligence si sono apertamente dichiarati contrari alla guerra.

Secondo +972 Magazine, su 295.000 riservisti almeno 100.000 non si sono presentati alla chiamata del Miluim, il servizio militare obbligatorio di riserva. La cifra potrebbe essere ancora più alta, a causa della censura imposta ai media stranieri.

Con l’aumentare dei Refuseniks — il termine usato in Israele per “obiettori di coscienza” — sono nate anche organizzazioni per sostenerli. Una di queste è il Refuser Solidarity Network, fondata nel 2003 e oggi coordinata da Mattan Helman. Non si tratta di disertori, ma di persone che amano il proprio Paese e l’esercito, ma non accettano di obbedire a ordini che ritengono immorali o politicamente manipolatori.

Helman è figlio di padre ebreo e madre olandese non ebrea. Nella tradizione ebraica, l’identità si trasmette per via materna. Per la società israeliana, Helman “non è ebreo” e non può accedere al Bar Mitswa, rito di passaggio religioso riservato ai ragazzi di discendenza ebraica. Il fratello ha scelto la conversione, lui invece ha scelto di abbracciare la propria differenza.

A quindici anni, quando scoprì per la prima volta l’esistenza dell’occupazione israeliana nei territori palestinesi, ne rimase sconvolto. Cominciò a informarsi, a leggere testimonianze, a contattare realtà come Breaking the Silence. Decise di rifiutare il servizio militare. La madre e il fratello erano contrari: temevano che sarebbe stato emarginato. Il padre e gli amici, invece, rispettarono la sua scelta. Alcuni insegnanti lo invitarono persino a raccontarla agli studenti.

Il giorno della convocazione si presentò alla caserma e dichiarò la propria obiezione. La pena prevista era l’arresto per 20 giorni. Subì sei mesi di detenzione a intermittenza, segnati da manipolazioni psicologiche, privazioni del sonno, tecniche di sfinimento e umiliazione. Il trauma è tale che oggi, quando parla con qualcuno in uniforme, il suo corpo entra in allerta per riconoscerne il grado e usare il linguaggio corretto. Durante la detenzione, ogni errore linguistico veniva punito.

“Non sono contro l’esercito, ma contro gli obiettivi che ci vengono imposti dal governo. Il governo ha avuto il potere grazie al nostro voto. Con la nostra protesta vogliamo ricordargli che abbiamo anche il potere di revocarglielo.”

Uri Tyroler conclude con parole che, per me, hanno un’eco quasi biblica:

“La morte di ogni bambino palestinese è un debito morale che lasciamo ai nostri figli e nipoti.”

“Il modo migliore per servire il Paese che amo è non servire.”

In un contesto in cui la vita militare è ancora uno status sociale, dove persino nei colloqui informali si chiedono le “credenziali di guerra”, queste parole sono rivoluzionarie.

Forse non possiamo capire davvero cosa significhi rifiutare le armi in un Paese dove la guerra è parte dell’identità collettiva. Ma possiamo ascoltare chi lo fa. Possiamo domandarci: se fossimo noi al loro posto, cosa faremmo?

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