Giugno 10, 2025 morenomaugliani

Manuale pratico per affogare la verità

Disinformazione, nostalgia e narrazione tossica nell’era digitale.

Cercasi storyteller con talento.
Requisiti: sguardo lucido, memoria lunga, parole precise.
Compiti: salvare ciò che resta della verità, prima che venga inghiottita dal rumore.

Ho pensato a questo annuncio mentre leggevo un lungo saggio pubblicato su De Correspondent. L’articolo parlava di verità, propaganda, nostalgia e disinformazione. Ma soprattutto, parlava di narrazioni. E mi ha fatto riflettere su una cosa che ormai do per scontata: chi racconta meglio, vince.

Non sempre vince chi ha ragione. O chi ha i fatti dalla sua parte.

Esistono due modi per soffocare la verità. Il primo è semplice: si reprime, come nei regimi autoritari. Censura, silenzio, minaccia. È il mondo di 1984 di Orwell, dove la verità è chiara, ma pericolosa.

Il secondo modo è più sottile, ma altrettanto efficace: si annega la verità. La si diluisce, la si confonde. È il mondo di Brave New World di Huxley. Nessuna censura, ma un’infinità di versioni contrastanti. Un oceano di parole in cui anche il marinaio più esperto finisce per perdere la rotta.

Ed è proprio qui che entra in gioco lo storytelling.

Viviamo in un’epoca in cui ogni cosa viene raccontata. Ogni tweet, ogni spot, ogni titolo. La realtà non è più solo ciò che accade, ma come viene narrata. E allora mi chiedo: chi sta scrivendo le storie che ascoltiamo ogni giorno?

Spesso non siamo noi.

I leader populisti lo sanno bene. Conoscono la potenza della nostalgia. Rievocano un passato glorioso — anche se non è mai esistito. Un passato in cui “si stava meglio”, ma forse solo perché non si sapeva. Non si misurava l’inquinamento. Non si registravano i flussi migratori. Non si dava voce a chi stava ai margini.

Rob Wijnberg, l’autore dell’articolo che ho letto, fa notare che il passato mitico evocato da Trump — e, fino a poco tempo fa, da Musk — è quello del XIX secolo americano. Un’epoca in cui non c’era meno immigrazione: semplicemente non si vedeva. Non c’era meno inquinamento: semplicemente non si misurava. Non c’erano meno tensioni sociali: semplicemente non venivano raccontate.

Eppure è questa narrazione, semplice e rassicurante, a conquistare. Perché promette libertà, mentre la realtà offre solo dati allarmanti e scenari inquietanti.

Così Musk viene acclamato quando compra Twitter per “ripristinare la libertà di espressione”.

Zuckerberg, dopo l’elezione di Trump, toglie il fact-checking da Facebook perché “la gente deve potersi esprimere liberamente”.

E intanto la verità annega.

Si scredita la scienza, si deride chi vuole ragionare, si tagliano i fondi alla ricerca. Negli USA si vieta l’uso di parole come transizione o emergenza climatica. Si cancellano studi. Si chiudono collaborazioni tra scienziati.

Anche l’Europa non è immune: nei centri per rifugiati olandesi, ad esempio, si servono i pasti in piatti con scritto “Qui lavoriamo al tuo rimpatrio.”

Tutto questo, in nome della libertà.

Ma quale libertà?

Harari, in Sapiens, lo spiega bene: gli esseri umani si uniscono attorno a storie condivise. Dei, nazioni, aziende. Apple non è una persona, ma chi possiede un iPhone sa di appartenere a un’identità. Sa di “far parte”.

Anche la libertà è una storia. E come ogni storia, dipende da chi la racconta.

Putin parla di “demilitarizzazione dell’Ucraina”. I nordcoreani parlano di Juche — autosufficienza — per giustificare l’isolamento. E chi vuole dirti che puoi dire tutto, in realtà vuole solo che non dica qualcosa.

In questo spazio ambiguo nasce il reazionarismo: una verità che non cerca i fatti, ma una conferma. Un’identità. Un nemico.

Leggi anche: Il fascismo moderno non urla più. Ma parla.

Spinoza, nel suo Trattato Teologico-Politico, lo diceva secoli fa:

“Gli uomini combattono per la loro schiavitù come se fosse la loro liberazione.”

Anche oggi accade. Lo vediamo con Netanyahu, accusato persino da veterani come Uri Tyroler di portare avanti la guerra solo per mantenere il potere. Lo vediamo in chi si oppone al cambiamento climatico non con argomenti, ma con meme. In chi scambia il fact-checking per censura.

E allora torno alla domanda iniziale.

Cercasi storyteller con talento.

Perché serve qualcuno che racconti un’altra verità. Quella vera, che nasce dalla realtà. Dalla responsabilità. Dal dubbio, perfino.

Una verità che non nega la complessità, ma la abita.

Che non ci libera dalla realtà, ma dentro di essa.

Una voce capace di dire, come Ruskin:

“La natura non consente a una grande verità di rivelarsi a chi, prevedendo le sue conseguenze, la respinge.”

E allora chi ha visto la luce, come nel mito della caverna, deve anche tornare indietro.

Raccontare ciò che ha scoperto. Rischiando il rifiuto. Rischiando l’incomprensione.

Ma è l’unico modo.

Forse non per cambiare il mondo. Ma almeno per non smettere di cercare la verità.

E per non lasciarla nelle mani di chi, con una storia ben costruita, la farà sparire.

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