Giugno 5, 2022 morenomaugliani

Mesotelioma pleurico – Verso l’epilogo

La nostra Storia

Il 5 maggio del 2022 nostra madre Giovanna di Giuseppe si è arresa al Mesotelioma pleurico. In questo articolo racconterò l’evoluzione della situazione fino all’epilogo. Abbiamo deciso di condividere tutto ciò che ci è successo. Le emozioni, paure, illusioni, ansie, speranze. In questo articolo trovi il racconto del primo contatto con questa malattia. La speranza è di aiutare chi come noi si trova o purtroppo si troverà a convivere con una realtà dura come il tumore. Se non trasformassimo il nostro Dolore in Amore, avremmo sofferto per niente. Questa è la nostra Storia. Aiutaci a condividerla.

La TAC di controllo dopo la prima chemio non ha dato i risultati sperati. La squadra di medici propone un nuovo ciclo con 3 sessioni ogni 7 giorni. Dopo di che 20 giorni di pausa, per poi ricominciare. Effettuata l’ultima sessione, di nuovo TAC di controllo.

Il percorso è quantomeno chiaro. La differenza la fa lo stato d’animo. Mamma inizia ad essere stanca, seppur motivata. I momenti di nervosismo arrivano sempre più velocemente, anche perché i dolori aumentano di settimana in settimana. La tosse pare essersi calmata (grazie a dei medicinali), ma la spalla ora da un dolore ancora più profondo. Mamma si lamenta anche del seno sinistro. Dapprima solo lateralmente, poi tutto il seno. Il lato destro sembra non darle problemi. Nella nostra ingenuità, ci diciamo che è positivo perché in ogni caso tutto è circoscritto in una zona ben precisa.

L’emoglobina diventa un problema sempre più importante. Vengono prescritti altri medicinali e cure per provare a rialzarla, incluse punture di eritropoietina. L’appetito non torna, anzi a volte sembra allontanarsi ancora di più. Proviamo ad incoraggiarla, cercando di cucinare i suoi piatti preferiti. Cerchiamo di spronarla. Ogni tanto colgo nel suo sguardo dei segni che mi turbano nel profondo. Diverse volte l’ho colta, credendo di non essere vista, a scuotere la testa in segno di diniego. Le chiedo “che c’è mamma?”. Le prime volte allenta la pressione spostando l’attenzione su altre cose. Più avanti invece la sentiamo dire “non doveva finire così però”. Inutile descrivere la sensazione di panico che queste parole possono provocare. La prima reazione è quella di tirarla su, facendo leva sull’orgoglio e sulle cose che ancora ha da fare e da vedere.

Lentamente questo suo stato d’animo prende il sopravvento sul resto.

Covid-19

I giorni passano tra un misto di calma apparente e ansia nascosta. La condizione fisica di mamma peggiora ancora un po’, la debolezza data dall’anemia chiede tributo. I dolori alla schiena e al seno diventano più importanti. Prendiamo contatto con l’oncologa che ci spiega che purtroppo se l’emoglobina non sale non è possibile iniziare il secondo ciclo di chemio. Non ci resta che aspettare dunque, sperando che l’appetito di mamma migliori così da rimetterla in forze insieme alle cure che parallelamente fa.

In due anni di pandemia, non abbiamo mai avuto casi in famiglia. In questo periodo, in cui mamma si preparava a iniziare la cura, c’è stato un contagio totale. Mamma si è contagiata per ultima. Gli appuntamenti iniziano a saltare, perché mamma è “contatto di un positivo”. Io inizio ad innervosirmi, perché mi sembra assurdo che una persona nelle sue condizioni debba rimandare delle cure così importanti in quanto contatto di un positivo. Mi aspetto che ci si siano delle soluzioni apposite per questi casi, visto che purtroppo mamma non sarà l’unica. Resta il fatto che gli appuntamenti continuano a saltare. Insieme a questi, il morale di mamma continua a scendere, fiaccato dai dolori che invece continuano ad aumentare.

Quando sembrava di essere arrivati alla svolta, è stato il turno di mamma a scoprirsi positiva. Fortunatamente non ha avuto sintomi forti. Il problema è stato che lo è rimasta per venti giorni circa. Ogni settimana passava aspettando e sperando che il prossimo tampone risultasse finalmente negativo. Nel frattempo, pur completamente asintomatica “la paziente non può recarsi in struttura”. Ora come allora, ritengo questa regola un indice dell’affaticamento del sistema sanitario. Mi sforzo con tutto me stesso di rimanere lucido, anche ora che scrivo queste parole. Realizzo che praticamente il problema di mamma è legato alle infrastrutture e ai protocolli. Non solo alla salute.

Resta il fatto che bisogna aspettare. Psicologicamente questa attesa è logorante. A tutto si somma la paura di vedere persone esterne, con tutte le conseguenze del caso.

Tentativi di trasfusione

Arriva il giorno in cui finalmente mamma si negativizza. Prendiamo appuntamento per rifare le analisi del sangue. La speranza è che l’emoglobina sia risalita. Purtroppo non è questo il caso. Davanti all’ennesima replica di questa dinamica, chiediamo un approccio diretto. L’oncologa stessa propone una trasfusione di globuli rossi perché “stiamo aspettando troppo”. In parte ci rassicura sapere che almeno questo problema sarà risolto. L’oncologa ci invita a fare la trasfusione in un ospedale vicino. “Se venite qui, può succedere che la signora debba aspettare 2 o 3 giorni in corsia prima di essere aiutata”. Altro segnale dell’affaticamento del sistema.

Decidiamo di rivolgerci a Tivoli, l’ospedale più vicino. Prendiamo appuntamento con il reparto di oncologia.

Gli spostamenti in auto sono sempre più difficoltosi per mamma. Stare seduta in quella posizione le risulta doloroso. Facciamo del nostro meglio per accompagnarla. Arriviamo in reparto e facciamo l’accettazione. Mamma utilizza una sedia a rotelle vista la difficoltà nel camminare. Viene portata dentro e ci rimane per un paio d’ore. La cosa ci fa ben sperare. Finalmente almeno questo problema verrà risolto, consentendoci di approcciare quello ancora più grosso. Mamma esce dal reparto portata da zio. Le chiedo come è andata. Mi risponde “mi hanno fatto le analisi, l’emoglobina è salita a 7,5 [ricordo che il minimo è 12]. Non mi fanno la trasfusione.” – “perché?” chiedo io. “Perché secondo il protocollo le trasfusioni si fanno con valori dal 7 in giù.” Rimango basito, stritolato dalla comprensione dei protocolli e l’assurdità a volte degli stessi. Stiamo sempre parlando di una persona con un quadro clinico molto compromesso. Eppure, a volte le regole sembrano essere al primo posto.

Ci viene consigliato di provare al Pronto Soccorso, spiegando la situazione. Mamma è stanca e nervosa, vuole andare via. Proviamo a farla ragionare. In fondo c’eravamo già, magari spiegando la situazione saremmo riusciti ad arrivare a questa benedetta trasfusione.

Andiamo quindi al Pronto Soccorso. Per prima cosa, le viene fatto un test rapido anti-covid e viene lasciata in attesa del referto. Questa attesa la sfianca ulteriormente. Quando è il suo turno, entra con mio zio per riuscire poco dopo. Il protocollo impedisce ai medici di fare una trasfusione. Provo a masticare la rabbia per impedirmi di fare delle sciocchezze. Ciò che ho imparato da quella situazione è che ci sono dei limiti oltre i quali la salute delle persone conta comunque meno di una regola. Questa regola è necessaria per appunto regolare la convivenza di più persone. Un pensiero logico, ma difficile da accettare in quelle situazioni. Tuttora non so bene cosa ne penso.

Mamma esce dal Pronto Soccorso ed è sfinita. Colorito ed energia pressoché assenti. Vuole andare via. Proviamo a prenderle qualcosa da mangiare ma non vuole mangiare. “Voglio andare a casa” è l’unica cosa che continua a ribadire. Vado a prendere la macchina e andiamo via.

Arrivati a casa, mamma dice “Se devo morire, che succeda in fretta. Queste giornate sono una tortura”. Fino a quel momento questo tipo di frasi hanno sempre fatto scattare una sorta di motivazione in me. Ero spinto a motivarla, tirarla su. Questo perché in un modo o nell’altro sentivo che queste esclamazioni erano più uno sfogo, un modo per esorcizzare la paura, che altro. Quel giorno per la prima volta, ho sentito un freddo dentro. Per la prima volta avevo sentito che mamma lo credeva veramente. Ora il fatto di morire rientrava realisticamente tra le soluzioni a questo problema. Non ricordo bene cose le risposi.

Telefoniamo ai dottori che la hanno in cura, spiegando la situazione. Finalmente viene proposto il ricovero in struttura (San Camillo) dove verrà effettuato la trasfusione.

Il 29 aprile, di venerdì, mamma viene ricoverata.

Il ricovero

Sabato ci organizziamo per andare a trovare mamma. È ricoverata nel reparto di chirurgia toracica. Il protocollo anti-covid è molto rigido. È ammesso un solo famigliare alla volta, munito di test negativo e green pass, dalle 18 alle 18:45 il martedì ed il sabato.

Io ero sceso da una settimana e sarei dovuto ripartire il 5 maggio. Spiego alle infermiere la situazione. Se non avessi visto mamma quel giorno, non so se avrei avuto modo di salutarla prima di ripartire. Fortunatamente comprendono la situazione e ci consentono di alternarci. Giada entra per prima e verso le 18:25 posso entrare io.

Mamma è in stanza con una signora. La trovo seduta sul letto, le avevano appena portato la cena. Sapendo che non le piaceva molto ciò che passavano, le avevamo portato della carne. Prendo il contenitore e faccio per tagliargliela. Lei mi blocca subito: “non tagliarla tutta perché tanto non me la mangio”. Io provo ad incoraggiarla. Mangia qualche boccone di carne e di sformato di patate. Mi chiede comunque di tagliarle la carne restante nel contenitore, perché eventualmente l’avrebbe mangiata più tardi. Lo faccio subito. Parliamo un po’, le chiedo come sta. In un paio di risposte la sento un po’ confusa. Penso che magari sia dovuto al ricovero, alle giornate tutte uguali e ad un ritmo sonno-veglia alterato. Mi chiede: “Quando riparti?” – “Non lo so, penso prossima settimana. Vediamo come va e poi decido”. Si arrabbia, noncurante delle altre persone: “Morè non mi fare arrabbiare. Tu devi tornare a casa tua. Lì hai una moglie e la tua vita. Lei ha bisogno di te e non voglio che sacrifichi quello che hai conquistato per stare qui. Io sto bene, non preoccuparti.” Sorrido pensando alla forza che solo le mamme hanno. Proteggere i figli senza se e senza ma. La rassicuro dicendole di non preoccuparsi. Arriva l’infermiera che ci chiede di lasciare il reparto. La saluto con tanti baci, le dico che la amo tanto e che non deve mai dimenticarlo. La stessa cosa che ci ha sempre detto anche lei.

La situazione precipita

È il primo maggio. Con papà non abbiamo voglia di unirci alle varie compagnie che ci hanno invitato. Ci mettiamo d’accordo con zio per andare da loro. Cerchiamo di ignorare i pensieri brutti e vivere una giornata rilassata per quanto possibile. Prepariamo un menù ricco e squisito. Parliamo e scherziamo negli spazi che la preoccupazione ci da.

La giornata passa fino ad arrivare alla sera. Facciamo una videochiamata con mamma. La troviamo attiva, scherzosa, piena di energia. Il colorito è tornato quello di sempre. Ci stupiamo e condividiamo questo stupore con lei. Una chiacchierata molto piacevole, con battute e scherzi. Chiudiamo la telefonata con un po’ più di serenità e fiducia che le cose stiano andando per il verso giusto.

Il giorno dopo, un lunedì, papà mi chiede di accompagnarlo al suo terreno per piantare 3 piante di ulivo. Accetto con piacere. Partiamo intorno alle 9. Papà mi dice che ha provato a chiamare mamma, ma senza successo. Provo anche io. Non risponde neanche a me. Pensiamo che magari stia facendo colazione, o che si sia semplicemente appisolata. Sento zio, che mi dice la stessa cosa. Mi chiama Giada, che dice che è riuscita brevemente a parlare con mamma. Una conversazione brevissima, dove mamma ha detto: “Giada non posso parlare, mi sento male.” La preoccupazione vola alle stelle. Papà inizia ad innervosirsi e imprecare. Cerco di rimanere lucido, mentre il cuore sembra voler uscire dal mio petto.

La mossa più logica è telefonare in reparto.

Senza metterci d’accordo, io e Giada telefoniamo quasi in contemporanea. Gli infermieri sono gentili e ci informano che mamma è stata portata a fare una TAC. Questa era fissata per il giorno successivo. Alle nostre domande, ci viene chiesto di chiamare direttamente i medici.

Giada riesce a parlarci e ci aggiorna. Mamma stamattina era in stato confusionale, per questo hanno deciso di farle una TAC al cervello e al torace. Al momento (erano più o meno le 11) non era ancora rientrata e quindi i risultati dovevano ancora arrivare.

Con papà finiamo quello che volevamo fare e torniamo a casa. L’attesa è lunghissima. Mantenere contatto con la realtà e non cedere alle preoccupazioni diventa difficile. Riesco a controllare il cervello, ma il corpo rimane in un perenne stato di agitazione.

Papà prepara il pranzo, riusciamo a mangiare e proviamo insieme ad esorcizzare le paure.

Arriva zio. Ha un’aria che non gli ho mai visto prima. “Mi ha telefonato Cardillo. Giovanna si era ripresa un po’, ma quando lui è andato in stanza per parlare del referto, lei era di nuovo in forte stato confusionale. Dice che è il caso che l’andiamo a trovare”. Detto questo, scoppia in un pianto profondo. Fino a quel giorno, io non avevo mai visto o sentito zio piangere. Mi sento come trafitto da qualcosa di indefinito. “Cosa ci stai dicendo, zio? Dobbiamo forse salutarla?” – chiedo scoppiando in lacrime a mia volta. “Non lo so Morè, non lo so!”. La forza di gravità sembra essersi decuplicata. Dobbiamo farci tutti un tampone per poter partire il prima possibile.

È il 2 maggio 2022.

Aiutaci ad aiutare

Nel corso della malattia di nostra madre, abbiamo realizzato quanto sia importante aiutare. Il dolore e la sofferenza che proviamo sarebbero inutili se non facessimo qualcosa per trasformarli.

Abbiamo preso contatti con il professor Filippo Lococo, dell’ospedale gemelli di Roma, per avviare una raccolta fondi. Il suo team svolge ricerca attiva con risultati molto promettenti (leggi questo articolo per saperne di più).

Qui sotto trovi il link per aiutarci ad aiutare. Con pochi semplici click puoi fare una donazione (non c’è un minimo e può essere anonima!).

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