Maggio 5, 2024 morenomaugliani

Due anni senza mia madre: Lezioni e trasformazioni

elaborazione del lutto e crescita personale

Oggi, 5 maggio 2024, sono passati due anni dalla dipartita di mia madre. Due anni in cui ho provato ad elaborare il lutto.

Si può superare un lutto? Come si guarisce dal dolore per la perdita di un genitore?

Il primo anno dalla perdita di mia madre l’ho passato cercando come un forsennato la risposta a queste domande. Ho riflettuto su temi importanti nell’elaborazione del lutto, come quello dell’accettazione e il “trovare la presenza nell’assenza”. Ero sulla buona strada, ma ancora troppo lontano dal traguardo.

Allora ho ricominciato a cercare. Ho cercato nello sport, nella meditazione, nello studio, nell’Arte. È stato un processo lungo, tanto lento dal farmi credere che non ci fosse progresso.

Le risposte alle due domande iniziavano ad arrivare, ma non osavo accettarle.

Si può superare un lutto?

No.

Come si guarisce dal dolore per la perdita di un genitore?

Non si guarisce.

Mi sentivo come un matematico che ricontrolla più e più volte la formula applicata arrivando comunque al risultato inaspettato.

Per la regola inversa però, se il risultato inaspettato è comunque giusto, ci deve essere un’errore nell’applicazione della formula.

Ho spostato la mia attenzione sulle domande che mi ponevo, ed è lì che ho trovato ciò che cercavo.

Mi rendo conto che molti dei ragionamenti che esporrò saranno al limite della filosofia, a volte della metafisica. Non sono un esperto in nessuno dei due campi. Ciò che riporterò qui è il percorso che ho fatto nell’ultimo anno.

La speranza è che ciò possa essere d’aiuto o magari di ispirazione per chi come me si è trovato o troverà ad affrontare la perdita di una persona cara.

Il concetto di perdita

Ho realizzato solo qualche mese dopo l’accaduto la violenza del lasciare la stanza dove un genitore ha appena smesso di vivere. Quel momento ha rappresentato per me una cesura con il passato. Avevo appena visto mia madre andare via. Questa volta per sempre. Non l’avrei mai più rivista. Non avrei più sentito la sua voce, non avrei più potuto toccarla. Qualcuno che neanche conoscevo in quel momento la stava letteralmente portando via. Come potevo essere lo stesso?

Eppure, seppure perso nel dolore, ho sempre prestato molta attenzione alle parole. Con le parole formiamo la nostra percezione del mondo. È importante scegliere quelle giuste.

In questi due anni, ad esempio, non sono mai riuscito a dire “mia madre è morta”. Ho un senso di malessere nello scrivere o pronunciare questa frase. Non per la paura atavica che la morte evoca, ma per il fatto che nella mia testa una cosa morta è qualcosa che non c’è più. Una cosa scomparsa. Una cosa è scomparsa quando non ce n’è più traccia.

Dire che non ci sia più traccia di mia madre in me e nelle persone intorno a me sarebbe un errore. 

Elaborare l’accettazione durante il primo anno, mi ha dato la forza necessaria per concentrarmi sulla “presenza nell’assenza” come auspicavo un anno fa. Allora era puro ragionamento, oggi sta diventando sempre di più pratica quotidiana.

Come tornare alla vita (non “di prima”)

Tutte le persone che subiscono un trauma desiderano tornare alla vita prima che la tragedia accadesse. Eppure questa proposizione – il tornare alla “vita di prima” – è fallace.

Per definizione non si può tornare alla vita di prima. Per il semplice fatto che non esiste più. Il Tempo non è un’entità statica e sempre uguale. Al contrario, si rigenera costantemente in un processo infinito che dá origine a quello che noi esperiamo come Presente. Il passato non esiste più, il futuro non esiste ancora. Sono entrambi proiezioni mentali. Nonostante ciò ci intossichiamo nell’illusione di poterli controllare.

Potresti obiettare che il passato continui ad esistere dentro di noi, visto che puoi richiamare alla mente un ricordo. È sicuramente vero, ma qui si annida un’altra fallacia: se ti chiedessi cosa hai fatto alle 15:42 del 2 gennaio del 2014 probabilmente non sapresti rispondere.

Possiamo dire che quel passato non esista, visto che non lo ricordi? Ovviamente no.

Questa è la prova che confondiamo il processo di memorizzazione di eventi con il passato.

Nel processo di memorizzazione degli eventi (non parlo dell’apprendimento) le emozioni giocano un ruolo fondamentale. Ma il problema era lontano dall’essere risolto:

Se ricordo solo gli eventi rilevanti emotivamente, allora dov’è andato a finire tutto il resto del Tempo che non ricordo?

Rispondere a questa domanda ha richiesto il più grande salto di pensiero e di percezione che abbia fatto fino ad oggi. Alla base di tutto, c’era un problema di impostazione. Doveva esserci un altro livello di Essere e Tempo.

Ho sempre creduto che da qualche parte dentro di me ci fosse un regista, un Moreno in miniatura che tirasse le fila della mia mente e del mio corpo.

Allora sono andato a cercarlo. Lui aveva sicuramente le risposte.

L’ho cercato nel mio cervello, poi nella testa. Non trovando nessuno sono sceso al petto. Per quanto spaventato dai risultati della ricerca, non ho mai trovato nessuno.

È stato qui che ho riscritto il paradigma con cui guardo alla realtà:

Ciò che fino a prima identificavo come il “Moreno in miniatura” ha lasciato posto a quello spazio incontrollato che è la consapevolezza. Questa lavora esattamente come uno specchio. Riflette fedelmente ciò che accade al di fuori e nonostante essa. Ogni interpretazione di quanto registrato è appunto, un’interpretazione, un giudizio parziale e postumo. Questo può essere influenzato in positivo o in negativo e perde quindi la sua attendibilità.

Ricordo i brividi nel leggere queste parole di Pirandello ne Il fu Mattia Pascal:

“E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?”

L’arte è quella cosa che non sai cos’è, fino a quando ne hai bisogno.

Il paradosso del controllo del Tempo

Cambiare il modo di guardare alla realtà ha sbloccato altre realizzazioni. Il primo concetto che si è rivelato in tutta la sua chiarezza è stata questa assurda illusione di poter controllare il tempo.

Negli ultimi decenni abbiamo fatto di tutto per accorciare il tempo necessario a fare le cose. L’aereo, il forno a microonde, il cellulare, lo smartphone. Tutto deve essere sempre più veloce. Questa dinamica è conosciuta come il paradosso di Jevon: l’aumento di una risorsa – inteso come risoluzione del problema causato dalla scarsità di quella risorsa – porta ad un aumento della richiesta di quella risorsa, anziché alla soluzione del problema.

Nel nostro caso, invece che guadagnare Tempo, ne abbiamo perso letteralmente la cognizione.

Crediamo di poter gestire tutto, di organizzare tutto nel miglior modo possibile. Fino a quando la Vita, facendo il suo corso, sbaraglia tutto quanto senza neanche guardare. Allora inizia la denuncia di un destino triste e crudele.

Ecco, io non posso più far parte di quel coro. Non ci riesco più.

Invece di guardare il dito, io guardo alla Luna. Io sono un Essere nel Tempo. E quindi ne rispetto le leggi.

Ho lasciato la presa sul Passato e sul Futuro, concentrandomi il più possibile sul Presente. L’unico modo che ho per onorare il passato e preparare il futuro è costruire e questo è possibile solo un pezzo alla volta, nel qui e ora.

Costruire è una cosa seria e per farlo bene bisogna allontanarsi dai rumori di fondo.

Si, sicuramente non riuscirò a completare tutto ciò che inizierò. Lo faranno i miei figli e sarà giusto così.

Proprio come io ho fatto con ciò che mamma aveva iniziato.

Conclusioni

L’assenza di mia madre è assordante. Mi mancherà sempre e per sempre.

In questi due anni di lutto e di profonda riflessione, ho imparato che la perdita non è solo assenza, ma una trasformazione continua che ci sfida a guardare il mondo con occhi diversi. Non si tratta di superare il lutto o di guarire dal dolore, ma di imparare a convivere con esso e a trasformarlo in un’esperienza di crescita e consapevolezza.

Ogni giorno, onoro la memoria di mia madre non cercando di controllare il passato o il futuro, ma vivendo appieno nel presente e costruendo il mio cammino con gratitudine e consapevolezza. Non posso fermare il passare del Tempo, ma posso scegliere come rispondere ad esso.

Lo scopo di queste mie riflessioni è di aiutare o essere d’ispirazione per chi si trova ad affrontare la perdita di una persona cara. Ho sofferto tanto in questi due anni. Se non facessi qualcosa per aiutare gli altri, avrei sofferto invano.