Maggio 5, 2023 morenomaugliani

Un anno senza mia madre: riflessioni sulla percezione del Tempo e del Dolore.

Dipende tutto da come guardi le cose.

Gli antichi Greci avevano due parole per descrivere il tempo: kronos e kairos. Il primo rappresenta lo scorrere dei minuti. Il secondo rappresenta la qualitá dello stesso. Secondo Kairos, un’ora insieme alla persona amata può equivalere a cinque minuti di Kronos. Dieci minuti di attesa in un ospedale possono equivalere a un numero indefinito di ore.

Mamma è andata via 1 anno fa.

52 settimane. 365 giorni. 8760 ore. 525600 minuti.

Chiaro, no? Invece Kairos colpisce forte. Mi stordisce. Non è vero che un anno dura un anno. Se mi dicessero che è andata via dieci anni fa, ci crederei. Se mi dicessero che in realtà non è mai andata via, ma è semplicemente a casa che mi aspetta, ci crederei lo stesso.

Ho passato diverse fasi. Sono stato triste, perso, impaurito, arrabbiato con Dio e con il mondo. Ho pianto tanto, mi sono scoperto fragile, sensibile, forte. Mi sono sentito in colpa per ridere, per sentirmi felice, per fare l’amore. Mi sono sentito infinitamente grato per poter ridere, per potermi sentire felice, per poter fare l’amore.

Lentamente ho capito: non è vero che il Dolore governerà la vita di chi subisce una perdita. Può sembrare così, soprattutto all’inizio. O meglio all’inizio sarà così, fino a quando non si creerà un nuovo equilibrio. Il Dolore entra senza chiedere permesso ed esige tutte le attenzioni.
Diverrà un parte della vita e insieme ad altri elementi formerà la crescita e l’evoluzione di quella persona.

Realizzare ciò richiede una cosa molto difficile e altrettanto dolorosa: l’Accettazione. Accettare che la Vita continui. Accettare che la felicità continuerà ad esistere e a fare parte della nostra esistenza. Accettare che l’amore crescerà e creerà altro amore. Accettare che riderò a crepapelle, piangerò di tristezza, di gioia o di risate. Scoprirò nuovi interessi e seguirò nuove passioni. Accettare che tutto questo succederà, nell’assenza di mia madre.

Trovare la presenza nell’assenza. Questa espressione mi ha accompagnato nelle ultime settimane. Lenta ma ostinata si è fatta strada nei momenti di dolore più profondo, fino a diventare una sorta di imperativo.

Io un giorno non ci sarò più. Tu che leggi, un giorno non ci sarai più. Non puoi immaginare quante volte mi sono chiesto – torturato a volte – cosa si pensa quando si è consapevoli dell’inevitabile. Cosa avrà pensato mia madre? Avrà avuto paura? Cosa le sarà tornato in mente? Cosa si sarà sussurrata, quando nessuno poteva sentire?

Riflettendo su queste domande, ho capito che trovare la presenza nell’assenza è l’unico modo per andare avanti.
Il dolore per una vita che finisce ti mette davanti ad un bivio: vuoi vedere ciò che non c’è più, o vuoi celebrare ciò che (ancora) c’è?

Nel mio periodo di rabbia, mi sono trovato spesso la sera a casa sul divano con una birra. Quasi subito di più. Un paio di whisky a volte mi hanno aiutato a calmarmi. Stavo cadendo in una spirale. Il mio corpo si abituava e reagiva all’alcol. Il mio cervello seguiva a ruota. Il mio mondo diventava sempre più piccolo ed io mi sentivo sempre più soffocare.

Non so bene quale sia stata la chiave di volta. Una voce (che negli anni ho imparato a riconoscere e ad ascoltare) mi riportava sempre in mente tutto il dolore passato. E poi mi sbatteva in faccia, senza giudizio, la mia reazione. Il suo scopo era semplicemente quello di farmi vedere, di farmi ragionare.

Ricordo di aver pianto – e mi commuovo tutt’ora mentre scrivo – quando ho realizzato che la direzione che stavo prendendo non avrebbe fatto altro che aggiungere dolore al dolore. Ho pensato a mio padre, a mia sorella. Ho pensato a mia moglie. A mio figlio che arriverà tra pochi giorni. Alle persone intorno a me.
Non bisognerebbe mai sottovalutare l’entità del dolore che la nostra assenza porterebbe nella vita delle persone che ci amano.

Ho sentito una sorta di responsabilità crescere in me. Ho quasi interamente riscritto il paradigma secondo il quale guardavo alla vita. Per la prima volta, da adulto, ho accettato nel cuore che un giorno il mio tempo finirà. Non c’è assolutamente niente di garantito e quindi non c’è assolutamente tempo da perdere. L’ho capito solo duemila anni dopo Confucio: “L’uomo ha due vite. La seconda inizia quando scopre di averne solo una”.

Meglio tardi che mai.

La vita ha il 100% di mortalità, questo è certo un dato di fatto. Io non sono speciale e un giorno sarà il mio turno.
Fino a quel momento devo fare del mio meglio. Devo rendere onore alla possibilità che mamma mi ha dato mettendomi al mondo.

Forte di questa realizzazione, mi sono voltato indietro. Di colpo tutto il dolore provato sembra aver trovato un senso. Non mi guarda più spaventevole e minaccioso. Mi guarda come un insegnante severissimo ma dolce, che si rende conto che l’allievo ha imparato la lezione.

Allargo lo sguardo e vedo l’uomo che sono diventato. Intravedo il padre che sarò.

Ed è allora che ho nuovi occhi per guardarmi dentro. Vedo buchi enormi, portati dall’assenza di mia madre.
Esattamente gli stessi buchi che prima mi terrorizzavano per la loro profondità.

Questa volta non fuggo via in preda alle vertigini.

Mi avvicino.

Ci entro dentro.

Ed è lì, proprio nel buio pesto che ho tanto temuto che la trovo:

Mia madre.

La nostra storia. I suoi occhi belli che mi guardano pieni di amore. Le sue mani che mi coccolano mentre mi addormento. Le risate insieme. I pomeriggi di pioggia passati a giocare. Uscire insieme a fare la spesa, come se fosse la cosa più spettacolare del mondo. L’odore del soffritto. La morbidezza delle torte il giorno del compleanno. Insegnarmi a leggere. Il venirmi a prendere alla fermata dell’autobus. La musica alta di domenica mattina. La calma della domenica pomeriggio. La sua pelle. Il suo sguardo il giorno del mio matrimonio. La sua radiosa felicità. Il tocco della sua mano mentre aspettavamo mia moglie all’altare. I nostri “ti amo” e “mi manchi”. Il suo orgoglio nel parlare di noi. Il sapere di aver fatto un ottimo lavoro crescendoci come ha fatto insieme a papà.

Tutto questo era proprio lì. È sempre stato lì, dentro di me. Ma non potevo vederlo. Il Dolore ha dovuto scavare questi buchi profondi per portare fuori questo tesoro.

Ora ogni volta che la mancanza mi prenderà allo stomaco – perché è sicuro che continuerà farlo – saprò benissimo dove andare.

Vado da mamma mia.

Il 5 maggio 2022 nostra madre Giovanna Di Giuseppe si è arresa al Mesotelioma pleurico. Abbiamo deciso di condividere tutto ciò che ci è successo. Le emozioni, paure, illusioni, ansie, speranze.

La speranza è di aiutare chi come noi si trova o purtroppo si troverà a convivere con una realtà dura come il tumore. Se non trasformassimo il nostro Dolore in Amore, avremmo sofferto per niente.

Questa è la nostra Storia. Aiutaci a condividerla.

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