Ho letto recentemente un’intervista a Vauhini Vara, autrice e giornalista, su De Groene Amsterdammer 149/26. Vauhini è nata in Canada da genitori indiani. All’età di dieci anni si è trasferita negli Stati Uniti, prima in Oklahoma e poi a Seattle, dove il padre lavorava per la casa produttrice di aerei Boeing. Il punto centrale dell’articolo, che è poi ciò che l’autrice stessa si chiede, è come sia possibile riappropriarsi della propria individualità nell’era della tecnologia.
Per rispondere a questa domanda, Vara racconta dei grandi cambiamenti tecnologici che anch’io, come lei, ho vissuto in prima persona. Siamo la generazione a cavallo tra passato e futuro. Io ho conosciuto un’adolescenza senza telefoni: partite interminabili al campo da calcio, lunghe attese per treni e autobus che non passavano mai, andare a chiamare gli amici direttamente a casa o telefonargli sul telefono fisso. Poi è arrivato internet. Ricordo ancora il suono del modem a 56k e la prima volta che sono riuscito a installare il Wi-Fi a casa dei miei. Ricordo anche l’arrivo degli smartphone. Un mio amico se ne innamorò subito e rimasi colpito dal fatto che qualcuno volesse spendere così tanto per comprare l’iPhone. Non mi ispirava molta fiducia. Lo comprai di seconda mano un paio d’anni dopo, perché ormai me ne ero incuriosito e, in fin dei conti, non c’era molta altra scelta.
Ciò che mi ha colpito è questo: quando guardiamo al passato e lo confrontiamo con il presente, facciamo l’errore – peraltro comprensibile – di credere che tutto sia successo di colpo. I grandi cambiamenti in realtà sono l’effetto di tanti piccoli passi, ma compiuti a una velocità altissima.
Vara racconta di come, quando arrivò internet, credeva fosse uno spazio ideale per crescere e migliorarsi. Oggi invece realizza che anche allora, quando le aziende stesse forse ancora non realizzavano il potere che stavano accentrando nelle loro mani, l’intero sistema fosse già viziato, compromesso.
Non dobbiamo mai dimenticare che, dietro ai servizi veloci e apparentemente gratuiti, ci sono delle aziende che, come tali, seguono un preciso modello di business. Google, ad esempio, dà accesso a tutte le informazioni disponibili. Allo stesso tempo, però, guadagna sulla creazione – e successiva vendita – del nostro profilo personale con preferenze, interessi, spostamenti. Amazon punta sulla narrativa della trasparenza dei prezzi, ma di fatto utilizza strategie per escludere le aziende con minore disponibilità, annientando di fatto la concorrenza.
Vara, come Nicholas Carr, sostiene che ci sia bisogno di una presa di coscienza e quindi di responsabilità da parte dei consumatori. Non è vero che non possiamo cambiare le cose. È vero che durerà di più e sembrerà quindi più difficile. Non può essere altrimenti quando si ha a che fare con continue distrazioni e narrative che inibiscono il pensiero critico. Per questo, mai come oggi, è importante riappropriarsi di strumenti come il Trivium.
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Un altro aspetto da non dimenticare è che alcune di queste aziende, che promettono di collegarti con il mondo, possono allo stesso tempo controllare la diffusione di alcuni tipi di contenuti ritenuti arbitrariamente “non conformi alle direttive”. Non ci rendiamo conto del pericolo e del paradosso di questa situazione. Posso parlare in tempo reale con qualcuno che si è appena svegliato in Australia, ma qualcun altro può zittirmi oscurando il mio profilo o bloccando i miei contenuti. Questo, naturalmente, non succede alla luce del giorno. Non serve. Basta programmare un algoritmo in grado di “scoraggiare” certi contenuti.
Vara riflette su come persone come Zuckerberg o Altman con il suo Moore’s Law for Everything, non facciano altro che dipingere e descrivere minuziosamente un futuro che ancora non esiste e in cui “casualmente” i loro prodotti giocano un ruolo cruciale. Altman arriva a sostenere che grazie all’AI si arriverà al famoso Reddito di Base Universale per tutti, visto che l’intelligenza artificiale cambierà drasticamente la società. E se vuoi rimanere al passo, devi darti da fare. È una sorta di self-fulfilling prophecy, in cui ci si autoconvince che quello sarà il futuro e si comincia già ad agire di conseguenza. Yuval Harari spiega molto bene nei suoi libri l’importanza dei miti e delle storie condivise, gli unici collanti in grado di muovere milioni di persone.
Io sono un grande appassionato di tecnologia e di AI. Eppure, da un po’ di tempo, sento un campanello d’allarme che suona sempre più forte. C’è qualcosa che non mi torna, e per questo sento un bisogno sempre più grande di tornare alla base: scrivere a mano, pensare, riflettere, memorizzare. Alla base di tutto c’è la realizzazione di una dipendenza unilaterale. È iniziato tutto quando ho deciso di abbandonare Spotify. Questo cambiamento è arrivato non a caso intorno al 26 febbraio 2025. Quella data era la scadenza per scaricare i libri acquistati su Amazon. È stato allora che ho scoperto l’esistenza del DRM. Ho iniziato a chiedermi: ‘Ma quindi, cosa è davvero mio? Come è possibile che mi sia abituato a prendere in prestito la cultura?’ Di fatto, ero in una situazione in cui, se Amazon, Kobo, Spotify o chiunque altro decidesse di cambiare le condizioni, mi ritroverei a doverle accettare (quasi sicuramente a mio discapito, non dimentichiamo che si tratta di aziende private che hanno come mira il profitto, non certo il mio benessere), oppure a dover lasciare andare collezioni che mi ero illuso fossero mie.
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La stessa cosa sta succedendo nell’Educazione. Da insider, mi rendo conto dei vantaggi che l’AI può portare nel workflow e di come cambierà di fatto il modo di studiare. Mentre all’inizio, preso dall’entusiasmo della novità, guardavo solo le cose positive, ora mi preoccupo un po’ di più. Una tecnologia potente come questa si inserisce in una situazione in cui i giovani hanno già gravi problemi di concentrazione. L’accesso alla cultura e a contenuti più impegnativi è ormai visto come una perdita di tempo, una cosa obsoleta e inutile, anacronistica. Secondo Carr, le tecnologie che eliminano questa frizione eliminano di fatto la possibilità di interagire con le fonti primarie, di coltivare un pensiero critico e di sviluppare e coltivare un gusto personale (interessante: Il Trivio per il XXI secolo: pensare, parlare, distinguere). Tutte cose che, anche nella migliore delle ipotesi, non abbozzano scenari positivi.
Come afferma Yuval Harari in Sapiens:
“Una delle poche ferree leggi della storia è che i lussi tendono a diventare necessità e a produrre nuovi obblighi. Una volta che ci si abitua a un certo lusso, lo si dà per scontato. Si comincia col farvi affidamento e si arriva al punto da non poter vivere senza di esso.”
Cosa fare?