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Il Grande Inganno: Lusso, Necessità e il Costo Nascosto della Tecnologia

Ho letto recentemente un’intervista a Vauhini Vara, autrice e giornalista, su De Groene Amsterdammer 149/26. Vauhini è nata in Canada da genitori indiani. All’età di dieci anni si è trasferita negli Stati Uniti, prima in Oklahoma e poi a Seattle, dove il padre lavorava per la casa produttrice di aerei Boeing. Il punto centrale dell’articolo, che è poi ciò che l’autrice stessa si chiede, è come sia possibile riappropriarsi della propria individualità nell’era della tecnologia.

Per rispondere a questa domanda, Vara racconta dei grandi cambiamenti tecnologici che anch’io, come lei, ho vissuto in prima persona. Siamo la generazione a cavallo tra passato e futuro. Io ho conosciuto un’adolescenza senza telefoni: partite interminabili al campo da calcio, lunghe attese per treni e autobus che non passavano mai, andare a chiamare gli amici direttamente a casa o telefonargli sul telefono fisso. Poi è arrivato internet. Ricordo ancora il suono del modem a 56k e la prima volta che sono riuscito a installare il Wi-Fi a casa dei miei. Ricordo anche l’arrivo degli smartphone. Un mio amico se ne innamorò subito e rimasi colpito dal fatto che qualcuno volesse spendere così tanto per comprare l’iPhone. Non mi ispirava molta fiducia. Lo comprai di seconda mano un paio d’anni dopo, perché ormai me ne ero incuriosito e, in fin dei conti, non c’era molta altra scelta.

Ciò che mi ha colpito è questo: quando guardiamo al passato e lo confrontiamo con il presente, facciamo l’errore – peraltro comprensibile – di credere che tutto sia successo di colpo. I grandi cambiamenti in realtà sono l’effetto di tanti piccoli passi, ma compiuti a una velocità altissima.

Vara racconta di come, quando arrivò internet, credeva fosse uno spazio ideale per crescere e migliorarsi. Oggi invece realizza che anche allora, quando le aziende stesse forse ancora non realizzavano il potere che stavano accentrando nelle loro mani, l’intero sistema fosse già viziato, compromesso.

Non dobbiamo mai dimenticare che, dietro ai servizi veloci e apparentemente gratuiti, ci sono delle aziende che, come tali, seguono un preciso modello di business. Google, ad esempio, dà accesso a tutte le informazioni disponibili. Allo stesso tempo, però, guadagna sulla creazione – e successiva vendita – del nostro profilo personale con preferenze, interessi, spostamenti. Amazon punta sulla narrativa della trasparenza dei prezzi, ma di fatto utilizza strategie per escludere le aziende con minore disponibilità, annientando di fatto la concorrenza.

Vara, come Nicholas Carr, sostiene che ci sia bisogno di una presa di coscienza e quindi di responsabilità da parte dei consumatori. Non è vero che non possiamo cambiare le cose. È vero che durerà di più e sembrerà quindi più difficile. Non può essere altrimenti quando si ha a che fare con continue distrazioni e narrative che inibiscono il pensiero critico. Per questo, mai come oggi, è importante riappropriarsi di strumenti come il Trivium.

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Un altro aspetto da non dimenticare è che alcune di queste aziende, che promettono di collegarti con il mondo, possono allo stesso tempo controllare la diffusione di alcuni tipi di contenuti ritenuti arbitrariamente “non conformi alle direttive”. Non ci rendiamo conto del pericolo e del paradosso di questa situazione. Posso parlare in tempo reale con qualcuno che si è appena svegliato in Australia, ma qualcun altro può zittirmi oscurando il mio profilo o bloccando i miei contenuti. Questo, naturalmente, non succede alla luce del giorno. Non serve. Basta programmare un algoritmo in grado di “scoraggiare” certi contenuti.

Vara riflette su come persone come Zuckerberg o Altman con il suo Moore’s Law for Everything, non facciano altro che dipingere e descrivere minuziosamente un futuro che ancora non esiste e in cui “casualmente” i loro prodotti giocano un ruolo cruciale. Altman arriva a sostenere che grazie all’AI si arriverà al famoso Reddito di Base Universale per tutti, visto che l’intelligenza artificiale cambierà drasticamente la società. E se vuoi rimanere al passo, devi darti da fare. È una sorta di self-fulfilling prophecy, in cui ci si autoconvince che quello sarà il futuro e si comincia già ad agire di conseguenza. Yuval Harari spiega molto bene nei suoi libri l’importanza dei miti e delle storie condivise, gli unici collanti in grado di muovere milioni di persone.

Io sono un grande appassionato di tecnologia e di AI. Eppure, da un po’ di tempo, sento un campanello d’allarme che suona sempre più forte. C’è qualcosa che non mi torna, e per questo sento un bisogno sempre più grande di tornare alla base: scrivere a mano, pensare, riflettere, memorizzare. Alla base di tutto c’è la realizzazione di una dipendenza unilaterale. È iniziato tutto quando ho deciso di abbandonare Spotify. Questo cambiamento è arrivato non a caso intorno al 26 febbraio 2025. Quella data era la scadenza per scaricare i libri acquistati su Amazon. È stato allora che ho scoperto l’esistenza del DRM. Ho iniziato a chiedermi: ‘Ma quindi, cosa è davvero mio? Come è possibile che mi sia abituato a prendere in prestito la cultura?’ Di fatto, ero in una situazione in cui, se Amazon, Kobo, Spotify o chiunque altro decidesse di cambiare le condizioni, mi ritroverei a doverle accettare (quasi sicuramente a mio discapito, non dimentichiamo che si tratta di aziende private che hanno come mira il profitto, non certo il mio benessere), oppure a dover lasciare andare collezioni che mi ero illuso fossero mie.

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La stessa cosa sta succedendo nell’Educazione. Da insider, mi rendo conto dei vantaggi che l’AI può portare nel workflow e di come cambierà di fatto il modo di studiare. Mentre all’inizio, preso dall’entusiasmo della novità, guardavo solo le cose positive, ora mi preoccupo un po’ di più. Una tecnologia potente come questa si inserisce in una situazione in cui i giovani hanno già gravi problemi di concentrazione. L’accesso alla cultura e a contenuti più impegnativi è ormai visto come una perdita di tempo, una cosa obsoleta e inutile, anacronistica. Secondo Carr, le tecnologie che eliminano questa frizione eliminano di fatto la possibilità di interagire con le fonti primarie, di coltivare un pensiero critico e di sviluppare e coltivare un gusto personale (interessante: Il Trivio per il XXI secolo: pensare, parlare, distinguere). Tutte cose che, anche nella migliore delle ipotesi, non abbozzano scenari positivi.

Come afferma Yuval Harari in Sapiens:

Una delle poche ferree leggi della storia è che i lussi tendono a diventare necessità e a produrre nuovi obblighi. Una volta che ci si abitua a un certo lusso, lo si dà per scontato. Si comincia col farvi affidamento e si arriva al punto da non poter vivere senza di esso.”

Cosa fare?

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il continente americano e europeo ad una svolta epocale.

Il “dominio americano” e la crisi d’identità europea

Ho letto un articolo di Catherine De Vries, docente di Scienze Politiche alla Bocconi, che mi ha fatto riflettere profondamente. La relazione tra gli Stati Uniti e l’Europa, fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, si è basata su un patto di difesa reciproca e sulla salvaguardia di valori comuni: democrazia, libero mercato e stato di diritto. Un accordo che, di fatto, ha sempre favorito entrambe le parti, sia politicamente che economicamente. Ma siamo sicuri che sia ancora così?

Con la caduta del Muro di Berlino, gli equilibri si sono rimescolati, dando vita a due visioni opposte per il futuro dell’Europa. Da un lato, Margaret Thatcher sosteneva il mantenimento del “dominio americano” sul continente. Dall’altro, François Mitterrand, sulle orme di Charles de Gaulle, spingeva per un’Europa indipendente, con la Francia a guidare il polo di potere. La NATO divenne l’organo di controllo principale, e solo la Francia ne uscì, permettendo, secondo George W. Bush, di “mantenere gli ex-satelliti dell’URSS nel mondo libero”.

Un paradosso militare e una visione di un secolo fa

Secondo un articolo di Tom Stevenson su De Groene Amsterdammer (DGA 149/25), a distanza di oltre 35 anni dalla fine della Guerra Fredda, la presenza militare americana in Europa è ancora imponente: ci sono circa 39.000 soldati in Germania, 15.000 in Polonia, 13.000 in Italia, e migliaia di altri sparsi in basi militari dalla Norvegia a Creta. In Paesi come il Belgio, i Paesi Bassi, l’Italia e la Germania, ci sono persino bombe nucleari B-61 che possono essere usate solo su ordine diretto degli USA.

Charles de Gaulle

Questo solleva una domanda cruciale: se lo scopo della NATO fosse quello di mantenere gli ex satelliti sovietici nel mondo libero, come spiegava George W. Bush, perché ci sono ancora così tanti soldati e basi americane in Paesi che sono già liberi e democratici? In Ungheria, Bulgaria e Slovacchia ci sono circa 150 (!) soldati americani. La risposta, temo, ci riporta a una visione che un tempo sembrava anacronistica, ma che oggi si sta rivelando in tutta la sua attualità: quella di Charles de Gaulle.

 

Già negli anni Sessanta, l’ambasciatore americano in Francia, Charles Bohnen, avvertiva il ministro degli Affari Esteri Dean Rusk che la visione di De Gaulle rischiava di far diventare l’Europa un terzo polo di potere. Era questo, in effetti, uno dei punti chiave del Memorandum di De Gaulle del 1958, che proponeva una direzione tripartita della NATO con USA, Regno Unito e Francia. Questa proposta, che mirava a dare maggiore peso all’Europa nelle decisioni strategiche globali, venne rifiutata.
De Gaulle reagì con coerenza e determinazione: ritirò le sue forze navali dal Mediterraneo dal comando NATO nel 1959, poi dalla Manica nel 1963. Rifiutò di immagazzinare armi nucleari straniere in Francia e costrinse gli USA a trasferire 200 aerei militari fuori dalla Francia. Nel 1966, ritirò ufficialmente la Francia dalla struttura militare della NATO, chiedendo la rimozione di tutte le basi NATO dal territorio francese. Fu una grande prova di carattere e coerenza, e nonostante i vari tentativi, gli Stati Uniti non riuscirono a isolare la Francia in Europa.

Destabilizzare per mantenere il controllo

Questa strategia di destabilizzazione, volta a prendere il controllo attraverso influenze più o meno dirette, è una costante della politica estera statunitense. Basti pensare alla Crisi di Suez del 1956, un atto imperialista di Gran Bretagna, Francia e Israele. Seguendo il Protocollo di Sèvres, i tre Stati fecero un accordo per cui Israele avrebbe invaso l’Egitto. La Gran Bretagna e la Francia sarebbero intervenute per mettere pace e riprendere intanto il controllo sul canale di Suez, nazionalizzato da Nasser. Per riprendere il controllo della situazione, gli USA, sotto la presidenza Eisenhower, ricattarono i due Paesi europei minacciando di vendere le loro riserve di sterline e di bloccare i fondi del Fondo Monetario Internazionale se non si fossero ritirati. Per De Gaulle, che allora non era ancora presidente, fu la prova definitiva dell’inaffidabilità dell’America e della necessità di puntare a un’indipendenza europea. Per la Gran Bretagna, invece, fu la conferma che non bisognava mai mettersi contro gli Stati Uniti.

Oggi ci troviamo in una dinamica simile. Già con l’amministrazione Obama si erano visti i primi segnali di un distanziamento dall’Europa a favore di un’apertura alla Cina. Con un possibile secondo mandato di Trump, questo distanziamento si sta trasformando in una vera e propria rottura, con i toni tipici dell’autoritarismo attuale.

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Un’Europa unita e forte, con una moneta unica e un mercato autosufficiente, sarebbe l’incarnazione della visione di De Gaulle. È per questo che assistiamo a tentativi sempre più espliciti di disgregazione del continente: da Musk che incoraggia i tedeschi a votare per l’AfD, a JD Vance che alla Munich Security Conference afferma che il pericolo non viene dalla Russia o dalla Cina, ma dall’Europa stessa. La narrativa di figure come Peter Hegseth, nel famoso scandalo Signalgate, dipinge l’Europa come “superata, disarmata e non autosufficiente”, un continente da abbandonare al suo destino.

La cosa più preoccupante è che gli Stati Uniti si trovano in una posizione che permette loro di agire in modo impunito. Secondo il Financial Times, i diplomatici europei temono che gli USA utilizzino l’offerta di appoggio militare come ricatto per ottenere concessioni in ambito economico, ad esempio sulla regolamentazione di AI e Big Tech. A questo si aggiunge la dipendenza economica e infrastrutturale dell’Europa da software e cloud americani. Qualche anno fa, dopo l’elezione di Trump, un direttore di un ospedale all’Aia confessava di essere preoccupato: “Se Trump decidesse di spegnere quei server, non avremmo più accesso ai dati dei nostri pazienti”.

Un cambio di mentalità come propellente

Nonostante non condivida le sue idee di egemonia e grandeur francese, mi viene da pensare che forse De Gaulle aveva ragione. La sua visione sulla pericolosità del controllo americano sull’Europa, anche per mano della NATO, si sta rivelando in tutta la sua durezza.

L’unico modo per superare questo periodo è usarlo come propellente per un’unione ancora più profonda. Un’unione che parta dalla cultura che condividiamo da secoli e che ha portato alla creazione del pensiero occidentale. Si tratta di un cambio di mentalità che può essere difficile, perché ci siamo abituati così tanto all’influenza americana da non riuscire quasi a immaginare una vita indipendente, sia economicamente che culturalmente. Forse dovremmo tornare indietro nel tempo e ripassare la Storia, per capire chi è venuto prima di chi.

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Gentiluomini e gentildonne del passato che utilizzano lo smartphone.

Manuale di sopravvivenza al tempo degli algoritmi

Ci sono letture che arrivano come un’eco, altre come un presagio. L’intervista a Nicholas Carr che ho terminato ieri appartiene alla seconda categoria. Mi ha attirato perché Carr è uno scrittore, e gli scrittori possiedono un sismografo speciale per le scosse che attraversano la cultura. Ma soprattutto, mi ha attirato perché la sua tesi è un sasso lanciato nello stagno della nostra confortevole narrazione digitale.

La rivoluzione che stiamo vivendo, dice Carr, non è l’avanzamento che molti professano e quasi tutti danno per scontato. La sua posizione si ancora a un’osservazione tanto semplice quanto sovversiva:

L’iperconnettività in cui ci troviamo oggi non porta a una comunicazione migliore. Al contrario, la peggiora.

È una contro-narrazione, un sentiero che si allontana dalla via maestra. Da quando internet è diventato l’aria che respiriamo, la nostra capacità di concentrazione si è fatta più labile. Fatichiamo a restare su testi lunghi e complessi, la nostra mente, come un animale irrequieto, cerca costantemente una via di fuga. Il tempo stesso ha cambiato forma, si è compresso. Tutto deve essere immediato, a portata di mano, controllabile. Illudendoci, come scrive il filosofo Hartmut Rosa, che la realtà sia qualcosa che possiamo addomesticare.

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Immaginiamo il nostro pensiero come una T. Il tratto orizzontale rappresenta l’estensione della nostra conoscenza, la quantità di stimoli che riusciamo a intercettare. Quello verticale ne è la profondità. I due sono inversamente proporzionali: se uno cresce, l’altro si contrae. L’era in cui viviamo ha disegnato una T con una barra orizzontale smisurata e un’asta verticale quasi invisibile. Siamo diventati esploratori di superfici infinite, ma abbiamo perso la capacità di scavare.

Questa non è una colpa, ma un adattamento. Siamo esposti, in media, a 34 gigabyte di informazioni ogni giorno. Una valanga per cui il nostro cervello, un organo magnifico forgiato per la sopravvivenza nella savana, non è attrezzato. Il suo sistema operativo non è aggiornato alla velocità dei cambiamenti che abbiamo innescato. E così, per non soccombere, adotta una strategia: analizza e categorizza tutto nel minor tempo possibile. Un triage costante che alimenta la polarizzazione, perché per distinguere in fretta servono etichette nette, bianchi e neri.

Questa non è un’intuizione moderna. Più di un secolo fa, il sociologo Charles Horton Cooley identificò nelle tecnologie della comunicazione il motore primario del cambiamento sociale. Scoprì qualcosa di fondamentale:

Il modo in cui comunichiamo – non tanto ciò che comunichiamo – stabilisce il modo in cui pensiamo e agiamo.

Il mezzo non è neutrale, è l’architetto invisibile dei nostri pensieri. E il nostro mezzo ha eliminato quasi del tutto la “frizione”. Era proprio la frizione delle attività analogiche a rivestirle di significato. C’era una volontà precisa, una curiosità mirata dietro al gesto di prendere una rivista, mettere su un disco, aprire un libro. L’assenza di un’infinità di alternative costringeva all’attenzione. Con un lettore CD portatile avevi quel disco, e le opzioni erano ascoltarlo fino a carpirne le sfumature o non ascoltarlo affatto. Oggi, se una canzone non ci cattura in trenta secondi, annega in un oceano di milioni di altri brani.

L’automatizzazione dei processi ci ha semplificato la vita, ma come evidenziava già Carr nel 2014 in The Glass Cage, ci ha privato del valore che nasce dallo sforzo, dall’investire tempo ed energia per ottenere qualcosa.

Ma il vero punto di svolta, il momento in cui abbiamo ceduto la regia, ha una data precisa: 2006. Con l’introduzione del Newsfeed, Facebook smette di essere una bacheca gestita dall’utente e diventa un flusso curato da un algoritmo. La cosa più incredibile è che accogliemmo questa novità con entusiasmo, come un segno di progresso. Stavamo consegnando le chiavi della nostra cultura a un guardiano di cui non conoscevamo il volto, né le intenzioni.

Mi fa pensare al perché ho lasciato Spotify, o alla battaglia persa contro i DRM sui libri. La domanda è sempre la stessa: chi ha in mano la nostra cultura? Dove finirà il nostro pensiero critico, se il percorso ci viene indicato? Dove il nostro gusto, se non lo formiamo più per scoperta ma per suggerimento?

La grandezza dell’amore è inseparabile dalla profondità della mente, la larghezza della mente corrisponde alla profondità del cuore; per questo i cuori grandi raggiungono i vertici dell’umanità, e sono anche grandi menti.

Ivan Aleksandrovic Gončarov

Sarebbe un errore, però, attribuire tutta la colpa agli algoritmi. Sarebbe troppo facile. Gli algoritmi non generano disinformazione, fake news o odio. Gli algoritmi sono specchi che amplificano. Mettono in circolo i contenuti che funzionano meglio, quelli che generano più reazioni. E se quei contenuti sono richiesti, significa che qualcuno li crea e molti, moltissimi altri, li condividono.

La vera domanda, quindi, è un’altra: perché siamo così attratti dalla disinformazione, dalla rabbia, dalla polarizzazione? La risposta ha a che fare con le nostre debolezze più antiche: il negativity bias, la nostra tendenza a dare più peso alle notizie negative, e tutta una serie di distorsioni cognitive che abitano il nostro inconscio. In un’epoca che ci spinge costantemente verso l’esterno, siamo sempre più alla ricerca di distrazioni per evitare il confronto con il nostro mondo interiore, con il nostro sconforto emotivo.

Oggi, chi cerca un senso è visto come un nostalgico, un individuo fuori tempo massimo. Blaise Pascal diceva: “Guai a coloro che non conoscono il senso della propria vita: eppure la convinzione che è impossibile conoscerlo è così diffusa tra la gente che si esalta persino come saggezza il non desiderare di conoscerlo.” 

Eppure, è proprio da qui che potrebbe nascere il cambiamento. Secondo Carr, non verrà da una nuova tecnologia, ma da una reazione umana. Verrà da una generazione che, per la prima volta, sarà cresciuta completamente consapevole di questa espropriazione della cultura e della comunicazione. E come la generazione degli anni ’60 si ribellò al conformismo dei padri, questa nuova generazione potrebbe sentire il bisogno impellente di riappropriarsi della profondità. Di disconnettersi per riconnettersi davvero. Di ritrovare il silenzio necessario per ascoltare il proprio pensiero.

Forse, la vera rivoluzione non sarà tecnologica, ma sarà una rivoluzione dell’attenzione.

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interno di una casa bombardata
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Un mondo di carta

Quando vidi le foto che mi mandò mio fratello, provai ad immaginare il momento della distruzione. Ho pensato agli autori dei libri nella mia biblioteca. Si sono accorti del pericolo? Hanno avuto paura? Hanno provato a scappare?
Ho provato a immaginare i personaggi che provano a mettersi in salvo mentre la biblioteca crolla.
Sono morti ora. E io siedo qui e soffro per la loro perdita.

La biblioteca si trovava in un appartamento in un palazzo che non era stato ancora bombardato. I soldati israeliani lo utilizzavano come avamposto, vista la sua posizione strategica. Quando l’hanno abbandonato, lo hanno anche bombardato.

Atef Abu Saif – scrittore, politologo ed ex ministro della Cultura dell’ANP – aveva messo su una biblioteca di circa 1000 volumi. Aveva iniziato intorno ai 15 anni. Racconta di come avesse sempre avuto questo amore profondo per i libri. Il momento più bello era per lui quando aveva messo abbastanza da parte dalla paghetta, per andare in libreria e comprare un pila di libri. Poi tornava a casa, si sedeva al centro della sua cameretta, prendeva i libri uno ad uno e iniziava a toccarli, ad annusarli. “Ricordo l’odore di ogni libro”, dice. “Questo rituale era parte integrante del mio rapporto con i libri e le storie in essi contenute”.

Ha visto bombardare e distruggere la casa dove è nato e cresciuto. Eppure non gli ha fatto così male come quando suo fratello gli ha mandato le foto su whatsapp delle macerie del palazzo dove c’era la biblioteca. L’avamposto non era più necessario. Il palazzo è stato bombardato. “Questi erano gli appartamenti dove speravo di poter riprendere la mia vita dopo la fine della guerra.” Sorrido amaramente e allo stesso tempo ammirato nel vedere la forza della Speranza.

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“Certo, potrei ricomprare i libri,” spiega Saif “ma ci sono 3 tesori che ho perduto per sempre.”

I libri ereditati dal padre. Quando era piccolo e ha capito che la lettura e la scrittura erano la sua passione, ha letto e riletto i pochi libri nell’unico scaffale della libreria di suo padre. Erano classici della cultura araba. Libri che ha divorato da ogni possibile angolazione. Lo hanno aiutato a imparare a leggere, ad esprimersi, a scrivere (anche tecnicamente). Ricorda ancora il giorno in cui ha chiesto al padre se poteva portare quei libri a casa sua, quando andò a vivere da solo.

Poi ci sono 4 volumi del dizionario Al-Qãmus al-Muhīt, un classico della cultura araba del XIV secolo. Racconta quando sua madre scese dal taxi proveniente dai confini con la Giordania, lo guardò e gli disse: “Vieni a prenderti il tuo regalo” indicando il bagagliaio della macchina. Non riusciva a credere ai suoi occhi. Quegli scatoloni pesanti erano leggerissimi per lui. Ogni giorno ne apriva una pagina a caso leggeva. Oltre alle definizioni delle parole, c’erano le regole grammaticali relative e i riferimenti ai classici della letteratura araba. Una miniera d’oro.

Poi ci sono i manoscritti dei suoi primi 4 romanzi. “Inizio sempre la prima bozza a mano. Solo dopo averla finita passo al computer.”
“I miei personaggi sono fortunati.” dice. “Mentre scrivo i miei romanzi li vedo vivere e passeggiare intorno a me. Ma quando li termino metto il manoscritto su una mensola della biblioteca e loro continuano a vivere lì. È il loro posto sicuro. Non sono costretti a vedere la distruzione. A camminare per strade della loro gioventù e faticare a riconoscerle.”

C’erano anche 7 storie brevi che aveva scritto durante la prigionia nel 1992, quando venne arrestato e detenuto in Israele per aver preso parte alla prima Intifada. “Le ho ‘pubblicate’ appendendole al muro della cella. I primi e unici lettori erano i miei compagni di cella. Quando sono stato rilasciato le ho portate con me. Non le ho mai pubblicate e proprio ultimamente ne parlavo al mio editore arabo.”

Quando sono in visita sbircio sempre nelle librerie delle persone. È un modo infallibile per completarne il ritratto. Cosa leggono spiega cosa sentono, quali bisogni provano a soddisfare. E non devono essere per forza libri non fiction. Anche la scelta di generi e romanzi può dire molto. È sia una ricerca interiore – se guardo alla mia pratica – sia un racconto “fisico” del viaggio di una persona. Interessi che cambiano, sogni, delusioni.
Non si tratta della perdita di qualcosa che, per quanto difficilmente, possa essere ricostruito. Si tratta di qualcosa che racchiude la storia di una persona.

È come derubarlo del suo passato e ancora peggio, del suo futuro.

Questo articolo è stato ispirato da un articolo scritto da Saif per De Groene Amsterdammer (149/24). 

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Manuale pratico per affogare la verità

Cercasi storyteller con talento.
Requisiti: sguardo lucido, memoria lunga, parole precise.
Compiti: salvare ciò che resta della verità, prima che venga inghiottita dal rumore.

Ho pensato a questo annuncio mentre leggevo un lungo saggio pubblicato su De Correspondent. L’articolo parlava di verità, propaganda, nostalgia e disinformazione. Ma soprattutto, parlava di narrazioni. E mi ha fatto riflettere su una cosa che ormai do per scontata: chi racconta meglio, vince.

Non sempre vince chi ha ragione. O chi ha i fatti dalla sua parte.

Esistono due modi per soffocare la verità. Il primo è semplice: si reprime, come nei regimi autoritari. Censura, silenzio, minaccia. È il mondo di 1984 di Orwell, dove la verità è chiara, ma pericolosa.

Il secondo modo è più sottile, ma altrettanto efficace: si annega la verità. La si diluisce, la si confonde. È il mondo di Brave New World di Huxley. Nessuna censura, ma un’infinità di versioni contrastanti. Un oceano di parole in cui anche il marinaio più esperto finisce per perdere la rotta.

Ed è proprio qui che entra in gioco lo storytelling.

Viviamo in un’epoca in cui ogni cosa viene raccontata. Ogni tweet, ogni spot, ogni titolo. La realtà non è più solo ciò che accade, ma come viene narrata. E allora mi chiedo: chi sta scrivendo le storie che ascoltiamo ogni giorno?

Spesso non siamo noi.

I leader populisti lo sanno bene. Conoscono la potenza della nostalgia. Rievocano un passato glorioso — anche se non è mai esistito. Un passato in cui “si stava meglio”, ma forse solo perché non si sapeva. Non si misurava l’inquinamento. Non si registravano i flussi migratori. Non si dava voce a chi stava ai margini.

Rob Wijnberg, l’autore dell’articolo che ho letto, fa notare che il passato mitico evocato da Trump — e, fino a poco tempo fa, da Musk — è quello del XIX secolo americano. Un’epoca in cui non c’era meno immigrazione: semplicemente non si vedeva. Non c’era meno inquinamento: semplicemente non si misurava. Non c’erano meno tensioni sociali: semplicemente non venivano raccontate.

Eppure è questa narrazione, semplice e rassicurante, a conquistare. Perché promette libertà, mentre la realtà offre solo dati allarmanti e scenari inquietanti.

Così Musk viene acclamato quando compra Twitter per “ripristinare la libertà di espressione”.

Zuckerberg, dopo l’elezione di Trump, toglie il fact-checking da Facebook perché “la gente deve potersi esprimere liberamente”.

E intanto la verità annega.

Si scredita la scienza, si deride chi vuole ragionare, si tagliano i fondi alla ricerca. Negli USA si vieta l’uso di parole come transizione o emergenza climatica. Si cancellano studi. Si chiudono collaborazioni tra scienziati.

Anche l’Europa non è immune: nei centri per rifugiati olandesi, ad esempio, si servono i pasti in piatti con scritto “Qui lavoriamo al tuo rimpatrio.”

Tutto questo, in nome della libertà.

Ma quale libertà?

Harari, in Sapiens, lo spiega bene: gli esseri umani si uniscono attorno a storie condivise. Dei, nazioni, aziende. Apple non è una persona, ma chi possiede un iPhone sa di appartenere a un’identità. Sa di “far parte”.

Anche la libertà è una storia. E come ogni storia, dipende da chi la racconta.

Putin parla di “demilitarizzazione dell’Ucraina”. I nordcoreani parlano di Juche — autosufficienza — per giustificare l’isolamento. E chi vuole dirti che puoi dire tutto, in realtà vuole solo che non dica qualcosa.

In questo spazio ambiguo nasce il reazionarismo: una verità che non cerca i fatti, ma una conferma. Un’identità. Un nemico.

Leggi anche: Il fascismo moderno non urla più. Ma parla.

Spinoza, nel suo Trattato Teologico-Politico, lo diceva secoli fa:

“Gli uomini combattono per la loro schiavitù come se fosse la loro liberazione.”

Anche oggi accade. Lo vediamo con Netanyahu, accusato persino da veterani come Uri Tyroler di portare avanti la guerra solo per mantenere il potere. Lo vediamo in chi si oppone al cambiamento climatico non con argomenti, ma con meme. In chi scambia il fact-checking per censura.

E allora torno alla domanda iniziale.

Cercasi storyteller con talento.

Perché serve qualcuno che racconti un’altra verità. Quella vera, che nasce dalla realtà. Dalla responsabilità. Dal dubbio, perfino.

Una verità che non nega la complessità, ma la abita.

Che non ci libera dalla realtà, ma dentro di essa.

Una voce capace di dire, come Ruskin:

“La natura non consente a una grande verità di rivelarsi a chi, prevedendo le sue conseguenze, la respinge.”

E allora chi ha visto la luce, come nel mito della caverna, deve anche tornare indietro.

Raccontare ciò che ha scoperto. Rischiando il rifiuto. Rischiando l’incomprensione.

Ma è l’unico modo.

Forse non per cambiare il mondo. Ma almeno per non smettere di cercare la verità.

E per non lasciarla nelle mani di chi, con una storia ben costruita, la farà sparire.

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gruppo di manifestanti
Photo by <a href="https://unsplash.com/@mikenewbry?utm_content=creditCopyText&utm_medium=referral&utm_source=unsplash">Mike Newbry</a> on <a href="https://unsplash.com/photos/protestors-hold-signs-during-a-political-demonstration-WtWcj_xqSH4?utm_content=creditCopyText&utm_medium=referral&utm_source=unsplash">Unsplash</a>

Il fascismo moderno non urla più. Ma parla.

“Gli uomini lottano per la loro schiavitù come se fosse la loro liberazione.”

— Baruch Spinoza

Questa frase mi torna in mente ogni volta che leggo certe notizie. Ma qualche giorno fa, leggendo un articolo su De Groene Amsterdammer firmato da Thijs Lijster, ha risuonato come un grido.

Come si riconosce il Fascismo?

È una domanda che suona provocatoria, anacronistica persino. E invece è urgentissima.

Adorno ci aveva avvisati.

Theodor Adorno, nel 1967, scriveva:

“Se vogliamo comprendere il fascismo – e se vogliamo combatterlo dobbiamo prima comprenderlo – dobbiamo imparare a riconoscere la forma storica che assume ai giorni nostri.”

La forma è cambiata. L’essenza no. Il fascismo di oggi ha smesso i simboli ingombranti. Non chiede più di morire per la patria, ma pretende che la patria ci garantisca ogni piacere, ogni privilegio. È edonista, narcisista, vittimista.

La libertà come maschera.

Il suo volto nuovo si cela dietro slogan sulla “libertà”. Ma quale libertà?

Quella di, ad esempio:

  • guidare a 130 km/h, anche se è dimostrato che ridurre a 100 salva vite e riduce emissioni (come qui nei Paesi Bassi);

  • lanciare fuochi d’artificio a Capodanno, anche se gli ospedali sono in emergenza e i medici sconsigliano;

  • discriminare, purché con “educazione”, perché “non si può più dire nulla”;

  • non essere disturbati dai poveri, dai rifugiati, dai diversi, che turbano il nostro comfort.

E quando l’estremismo diventa normalità?

È successo. Sta succedendo.

Geert Wilders, leader dell’estrema destra olandese (che ha appena fatto cadere il governo), ha scritto su X dopo la caduta di Assad in Siria:

“Festeggiate la fine del Ramadan nel vostro Paese con le vostre famiglie. Non qui. Ciao.” Rivolto ai siriani rifugiati nei Paesi Bassi.

In alcuni centri di accoglienza sono comparsi piatti con la scritta:

“Qui lavoriamo al tuo rimpatrio.”

E negli Stati Uniti, mentre il senatore JD Vance fa la morale all’Europa sulla libertà d’espressione, si censurano libri scolastici e ricerche universitarie che parlano di clima, identità di genere, storia coloniale.

Tutto è sempre un “piccolo passo”. Ma ogni passo sposta il confine. E alla fine non sappiamo più dove sia.

Il mito della rinascita.

Il fascismo moderno – ci ricorda Roger Griffin – si riconosce da quattro elementi: nazionalismo, populismo, reazione e mito della rinascita.

È proprio questo il punto: la promessa di un grande ritorno. Di un prima che non è mai esistito. Un’epoca in cui tutto era più semplice, l’identità più chiara, il mondo più “nostro”.

Working towards the Führer.

Lo storico Ian Kershaw l’ha descritto bene. Nel Reich, Hitler non doveva dare ordini dettagliati. Bastava indicare la direzione. E i suoi seguaci, per zelo, facevano tutto il resto.

È questa la dinamica più inquietante:

non serve più una dittatura conclamata. Basta un clima. Un desiderio. Una retorica.

Il resto lo fanno le persone comuni, giorno dopo giorno. Normalizzando. Giustificando. Adeguandosi.


E quindi?

Non scrivo per allarmare. Ma per riconoscere.

Perché se c’è una cosa che ho imparato dai libri e dalle storie – anche da quella degli obiettori israeliani di cui ho scritto pochi giorni fa – è che la prima forma di resistenza è lo sguardo.

Guardare in faccia le cose. Chiamarle per nome. Non cedere all’abitudine.

Se vogliamo libertà vere, dobbiamo imparare a vedere anche quelle false.

E smettere di scambiare la comodità con la giustizia.

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gruppo di soldati obiettori di coscienza
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Israele dall’interno: il coraggio di disobbedire

Tempo di lettura: 6 minuti

Autore: Moreno Maugliani


Ho letto l’articolo Grenzen aan gehoorzaamheid di Simone Korkus, pubblicato su De Groene Amsterdammer 149 n. 20. Mi ha colpito profondamente perché in questo periodo ho finalmente ceduto alla reticenza e alla codardia di non esprimermi sulla tragedia in corso in Palestina.

Mi ha incuriosito anche perché affronta una realtà quasi completamente ignorata dalla stampa occidentale: l’obiezione di coscienza all’interno dell’esercito israeliano. È un fenomeno reale, crescente, e per questo probabilmente rimosso dal dibattito pubblico internazionale.

La frase che mi ha colpito di più è di Mattan Helman:

“Chi è pro-Israele ignora e rinnega ogni forma di critica a Israele. Chi è pro-Palestina non accetta niente proveniente da Israele.”

Una sintesi spiazzante e lucidissima di una situazione che troppo spesso ci costringe a scegliere una bandiera invece di affrontare la complessità.

Eppure, i movimenti interni di resistenza esistono. E crescono. Di conseguenza, aumenta anche lo scontro sociale. Uri Tyroler, patriota e combattente, sostiene che l’unica rivoluzione possa e debba avvenire dall’interno. La situazione è così tesa che, secondo Yair Lapid, leader dell’opposizione, Israele potrebbe precipitare in una guerra civile.

La resistenza dei militari è iniziata nel 2023, quando 41 riservisti si sono rifiutati di prendere parte all’attacco a Rafah. Secondo loro, una guerra prolungata e sproporzionata metteva solo più in pericolo ostaggi e civili innocenti. Anche a causa della narrativa dominante dei media israeliani, la loro opposizione non nasce tanto dalla compassione per i palestinesi, quanto dall’assurdità strategica del sacrificio di 891 soldati per salvare 59 ostaggi. Ventotto di loro si sono tolti la vita.

In questo contesto, la figura di Uri Tyroler assume un significato particolare. Cresciuto con il mito delle armi, lucidava l’uzi del padre a cinque anni. Dopo il 7 ottobre 2023 ha imbracciato le armi per difendere Israele come comandante di una unità civile. Ma sei mesi dopo è arrivata la consapevolezza:

“Più danni, distruzione e dolore infliggiamo agli abitanti di Gaza, più mettiamo a repentaglio la vita degli ostaggi e più difficile sarà raggiungere la pace.”

Secondo Tyroler, questa guerra e il rifiuto di negoziare non servono più a difendere Israele, ma solo a mantenere Netanyahu al potere.

Dopo quei primi 41 soldati, l’obiezione di coscienza si è diffusa rapidamente: oltre 11.000 tra riservisti, piloti, agenti del Mossad, medici, funzionari della sicurezza e membri dell’intelligence si sono apertamente dichiarati contrari alla guerra.

Secondo +972 Magazine, su 295.000 riservisti almeno 100.000 non si sono presentati alla chiamata del Miluim, il servizio militare obbligatorio di riserva. La cifra potrebbe essere ancora più alta, a causa della censura imposta ai media stranieri.

Con l’aumentare dei Refuseniks — il termine usato in Israele per “obiettori di coscienza” — sono nate anche organizzazioni per sostenerli. Una di queste è il Refuser Solidarity Network, fondata nel 2003 e oggi coordinata da Mattan Helman. Non si tratta di disertori, ma di persone che amano il proprio Paese e l’esercito, ma non accettano di obbedire a ordini che ritengono immorali o politicamente manipolatori.

Helman è figlio di padre ebreo e madre olandese non ebrea. Nella tradizione ebraica, l’identità si trasmette per via materna. Per la società israeliana, Helman “non è ebreo” e non può accedere al Bar Mitswa, rito di passaggio religioso riservato ai ragazzi di discendenza ebraica. Il fratello ha scelto la conversione, lui invece ha scelto di abbracciare la propria differenza.

A quindici anni, quando scoprì per la prima volta l’esistenza dell’occupazione israeliana nei territori palestinesi, ne rimase sconvolto. Cominciò a informarsi, a leggere testimonianze, a contattare realtà come Breaking the Silence. Decise di rifiutare il servizio militare. La madre e il fratello erano contrari: temevano che sarebbe stato emarginato. Il padre e gli amici, invece, rispettarono la sua scelta. Alcuni insegnanti lo invitarono persino a raccontarla agli studenti.

Il giorno della convocazione si presentò alla caserma e dichiarò la propria obiezione. La pena prevista era l’arresto per 20 giorni. Subì sei mesi di detenzione a intermittenza, segnati da manipolazioni psicologiche, privazioni del sonno, tecniche di sfinimento e umiliazione. Il trauma è tale che oggi, quando parla con qualcuno in uniforme, il suo corpo entra in allerta per riconoscerne il grado e usare il linguaggio corretto. Durante la detenzione, ogni errore linguistico veniva punito.

“Non sono contro l’esercito, ma contro gli obiettivi che ci vengono imposti dal governo. Il governo ha avuto il potere grazie al nostro voto. Con la nostra protesta vogliamo ricordargli che abbiamo anche il potere di revocarglielo.”

Uri Tyroler conclude con parole che, per me, hanno un’eco quasi biblica:

“La morte di ogni bambino palestinese è un debito morale che lasciamo ai nostri figli e nipoti.”

“Il modo migliore per servire il Paese che amo è non servire.”

In un contesto in cui la vita militare è ancora uno status sociale, dove persino nei colloqui informali si chiedono le “credenziali di guerra”, queste parole sono rivoluzionarie.

Forse non possiamo capire davvero cosa significhi rifiutare le armi in un Paese dove la guerra è parte dell’identità collettiva. Ma possiamo ascoltare chi lo fa. Possiamo domandarci: se fossimo noi al loro posto, cosa faremmo?

Leggi anche: Ciò che Sai È il Risultato di Ciò che Hai Scelto di Ignorare

Leggi anche: Il Trivio per il XXI secolo: pensare, parlare, distinguere

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een man die staat voor 3 deuren: logica, grammatica en retorica

Il Trivio per il XXI secolo: pensare, parlare, distinguere

Hai letto l’articolo Pensiamo ancora con la nostra testa? Questo è il suo fratello esplicativo. Qui ti porto dentro il significato profondo di Logica, Grammatica e Retorica e ti mostro perché ne abbiamo ancora bisogno oggi.

Viviamo immersi in un oceano di informazioni. Ne riceviamo a centinaia ogni giorno, ma quante ne trasformiamo in conoscenza? E soprattutto: quanti di noi sono ancora capaci di distinguere, esprimeree ragionare?

Il Trivio – le tre arti liberali di Logica, Grammatica e Retorica– era un tempo il fondamento dell’educazione. Oggi potrebbe tornare a esserlo. Ma non come disciplina da museo: come tecnologia mentaleper vivere con lucidità nel nostro tempo.

La Logica: pensare in un mondo rumoroso

Viviamo in un’epoca che privilegia l’opinione rispetto all’argomentazione, la velocità rispetto alla profondità. Ma la logica ci chiede l’opposto: ci costringe a rallentare, a pensare prima di parlare, a evitare scorciatoie mentali.

Un esercizio che allena questo muscolo è il journaling quotidiano, come racconto qui: Dietro le quinte del mio journaling ibrido

Nelle scuole medievali, la logica era “l’arte di distinguere gli argomenti validi da quelli invalidi”. Serve ancora oggi per smascherare fallacie, riconoscere connessioni illogiche, e difendersi dalle manipolazioni.

Pensiamo agli algoritmi dell’intelligenza artificiale, che non conoscono la verità ma solo la probabilità. Il loro funzionamento si basa su pattern statistici, non su significato.
(Approfondisco questo tema nell’articolo Come utilizzare l’AI per imparare meglio – Strategie e metodi pratici)

La logica è quindi il primo vaccino contro l’infodemia, contro l’illusione che tutto ciò che è detto sia automaticamente vero. Senza logica, non c’è libertà.

Applicazioni pratiche:

  • Individuare fallacie logichenei dibattiti pubblici e social
  • Allenare il pensiero con mappe argomentativeo dialettiche socratiche
  • Chiedersi: “Qual è la premessa nascosta di questa affermazione?”

come padroneggiare la logicaLa Grammatica: dare forma al pensiero

Se la logica struttura il pensiero, la grammatica gli dà forma. Le parole non sono solo veicoli di contenuto: sono strumenti per pensare meglio. Non si pensa in astratto, si pensa con parole precise.

Nel Medioevo, la grammatica era la prima arte da imparare. Significava imparare a dominare la lingua per dominare le idee. Non a caso logos in greco significa sia parola che ragione.

Lo studio delle Scritture ha un ruolo importantissimo in questo contesto, anche per quanto riguarda la memoria. (Ne parlo più a fondo nell’articolo La memoria, da tecnica retorica a gesto spirituale).

Saper usare la lingua non è solo questione di stile: è questione di chiarezza, coerenza, e di identità.

Applicazioni pratiche:

  • Costruire frasi brevi e precise nei propri testi
  • Espandere il proprio vocabolario attivo
  • Analizzare testi classici o articoli con occhio grammaticale: come è costruita questa frase? perché funziona?

come migliorare la grammatica

La Retorica: comunicare per costruire senso

Retorica oggi è spesso sinonimo di manipolazione. Ma nell’antichità era l’arte più nobile: quella di comunicare in modo efficace, etico e persuasivo. Non è l’arte di vincere, ma di costruire un ponte tra chi parla e chi ascolta. Richiede ascolto, empatia, precisione.

Nell’epoca dell’algoritmo e del content marketing, comunicare bene è fondamentale. Non basta avere ragione: bisogna saperla far comprendere.

Senza retorica, la logica rimane sterile e la grammatica muta.

Questo è anche il cuore del mio articolo sulla scrittura per pensare: Scrivere per Ricordare: Il Potere di un Commonplace Book nell’Era dell’AI

Applicazioni pratiche:

  • Usare la struttura classica: exordium, narratio, divisio, confirmatio, confutatio, peroratio.
  • Adattare il messaggio all’interlocutore
  • Fare esercizi di sintesi: “spiega il tuo pensiero a un bambino di 8 anni”

la costruzione di un discorso retoricoUna tecnologia dell’anima

Il Trivio non è un ricordo del passato. È una tecnologia dell’anima: un software mentale per navigare l’epoca dell’informazione senza naufragare.

Grammatica, logica, retorica: pensare, parlare, distinguere. Tre atti, tre arti, tre strumenti per essere cittadini e non semplici utenti.

(Ecco come cerco di integrare questa tecnologia nel mio Secondo Cervello)

Epilogo: anche questo articolo è… retorico

Ok, ora guardiamo meglio. Questo articolo è stato scritto seguendo la stessa struttura che ho appena spiegato:

  1. Exordium– Ti ho fatto una domanda implicita: siamo ancora capaci di pensare?
  2. Narratio– Ti ho introdotto la storia del Trivio
  3. Divisio– Ho mostrato la tripartizione in Logica, Grammatica, Retorica
  4. Confirmatio– Ho argomentato il loro valore con esempi attuali
  5. Confutatio– Ho smontato i pregiudizi che oggi abbiamo su di esse
  6. Peroratio– Ho concluso con una visione sintetica e ispiratrice

Hai appena attraversato il Trivio. Senza accorgertene. Ma ora puoi tornarci consapevolmente.

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Lettera per il tuo secondo compleanno

Oggi è il tuo compleanno e io non mi ricordo come fosse la mia vita prima di te. Ho mai avuto una vita prima di te? Oppure ho sempre vissuto verso di te?

A volte riesco a vedere tutto con chiarezza. È come se avessi fatto questo percorso in avanscoperta per te, per voi. Ho vissuto momenti felici, immensamente tristi, mi sono innamorato, ho vinto, ho perso. Ho scritto tutto da qualche parte dentro di me, con dovizia e disciplina.

L’ho purificato passandolo in quel cuore che può prendere tutte le forme, anche quella di un setaccio. Non sapevo perché, sapevo solo che dovevo farlo.

È stata la vita poi, a volte a colpi d’ascia, a volte rifinendo con lo scalpello, a togliere il superfluo. Ed ora ho spazio per capire la verità dietro la luce nei tuoi occhi. Nel suono della tua voce. Nell’universo del tuo sorriso. Mi si rivelano come se fossero stati sempre lì e io li riconosco in me e mi riconosco in essi.

Ecco perché dovevo farlo.

È così che ho trovato il Tesoro. C’è tanto oro dentro di me. E quest’oro non è mio. È vostro. Io ve lo rendo affinché anche voi impariate a riconoscerlo e cercarlo. Fino a quando sarà il vostro turno di passarlo a chi verrà dopo di voi.

Lo faccio con ogni bacio, con ogni abbraccio. Con ogni parola, o anche solo guardandoti. Con tutte le favole e i libri che ti leggo. La musica che ascoltiamo insieme. Quando balliamo come pazzi o facciamo colazione insieme. Quando mi chiedi di abbracciarti e io vorrei piangere tutte le lacrime che ho in corpo. Quando ti arrabbi perché non riesci a fare qualcosa e provo a spiegarti come fare. Quando hai paura e ti sento rilassarti nel mio abbraccio.

Non è forse questo lo scopo della vita? Per questo ti dico che mi sembra di aver vissuto verso di te.

Quando sentirai di voler fare del Bene, fallo senza chiederti perché. Non ascoltare chi ti dirà che stai sbagliando. Ascolta quella voce che so che senti.

Stai accumulando l’oro, proprio come ho fatto io. L’unico modo per goderne è condividerlo, rimetterlo in circolo. Fino a quando un giorno anche noi diverremo parte di quell’oro.

Quando sarai grande e rileggerai queste parole, penserai che siano troppo difficili, o magari pessimistiche. Lo capisco. Magari sarò ancora da qualche parte, con un libro o una penna. E tu sarai gentile abbastanza da non rinfacciarmele.

E se non ci sarò non preoccuparti. Rileggi queste parole. Le sentirai dentro al cuore. E allora si, sarò sempre con te.

Tanti auguri amore mio!

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Trivium met een pen, papier en redenatie

Pensiamo ancora con la nostra testa?

Siamo sommersi di risposte, ma incapaci di scegliere

Viviamo nell’epoca della risposta. Tutto è a portata di click. Ogni domanda ha una soluzione, ogni problema una guida, ogni incertezza un algoritmo. Eppure, mai come oggi, sembriamo aver smarrito la cosa più umana di tutte: la capacità di pensare con la nostra testa.

Sappiamo trovare tutto, ma non scegliere. Abbiamo accesso a tutto, ma non sappiamo distinguere (leggi anche: Ciò che Sai È il Risultato di Ciò che Hai Scelto di Ignorare). In mezzo a milioni di contenuti, la mente si confonde, si appiattisce, si arrende. Il pensiero critico è diventato un lusso. O peggio: un ostacolo.

Il problema: sappiamo accedere, ma non comprendere

L’intelligenza artificiale ha accelerato ogni processo cognitivo (in questo articolo spiego come utilizzo l’AI per imparare). Ma non distingue il vero dal verosimile. Le scuole insegnano contenuti, ma non strumenti. I social premiano visibilità, non profondità. Il sapere è diventato consumo. L’educazione, prestazione. Il linguaggio, rumore.

In questo scenario, parlare di “ragionamento”, di “disciplina del pensiero”, sembra quasi fuori luogo. Come se fosse un retaggio del passato. Ma proprio ora, in questo mondo saturo e incerto, servono basi solide. Non nuove. Antiche. E ancora vive.

Tre chiavi per riattivare il pensiero

Cosa significa davvero pensare?

Per comprenderlo, ti propongo di attraversare tre dimensioni fondamentali. Tre facoltà che l’umanità ha coltivato per secoli per formare menti libere e lucide:

  • La capacità di ragionare
  • La capacità di esprimersi con chiarezza
  • La capacità di comunicare e persuadere

Ragionare per distinguere

Logica

Pensare significa distinguere. Vero da falso. Correlazione da causa. Ragionamento valido da sofisma.

Oggi, le IA producono contenuti credibili, ma non necessariamente veri. Senza logica, diventiamo preda di ciò che “suona giusto”. E ci fidiamo di ciò che si ripete più spesso.

La logica è l’antidoto. Ci insegna a sospendere il giudizio, a fare domande, a riconoscere le fallacie. È l’arte della distinzione.

Dire bene per pensare bene

Grammatica

Pensare bene significa anche nominare bene. Il linguaggio è struttura del pensiero. Se le parole sono confuse, lo è anche ciò che pensiamo.

Una mente allenata alla grammatica non è pignola. È libera. Perché sa dire, sa scrivere, sa comprendere.

Oggi, nella velocità della comunicazione, la grammatica sembra superflua. Ma è proprio ora che serve più che mai: per fermarsi, articolare, dare forma.

Comunicare per incidere

Retorica

Pensare bene significa anche comunicare bene. La retorica non è manipolazione: è costruzione dell’argomentazione.

Una buona idea, se mal detta, è un’occasione persa. La retorica ci insegna a conoscere il pubblico, a organizzare un discorso, a rendere un pensiero convincente senza svilirlo.

Saper parlare, oggi, è anche saper difendere la verità dalla superficialità. E questo è un atto politico, non solo linguistico.

Le obiezioni non mancano (e vanno ascoltate)

“Tanto ormai pensa tutto l’IA.”

No: l’IA simula il pensiero. Non lo vive. Predice, non comprende. Se non sappiamo pensare, saremo guidati da sistemi che non pensano affatto.

“Non c’è tempo per queste cose.”

Proprio perché siamo travolti dalla velocità, dobbiamo reimparare la lentezza della riflessione. Senza, saremo solo più rapidi nel cadere.

“Tanto nessuno ragiona più così.”

E allora? Quando ci si perde, non si segue la massa. Si torna alla fonte.

Una piccola rivelazione finale

Se sei arrivato fin qui, hai appena fatto qualcosa che in pochi fanno: hai pensato.

Hai seguito un ragionamento. Ne hai colto la struttura. Hai messo in discussione e poi riconfigurato le tue convinzioni.

E ora, guarda meglio: questo articolo era una lezione nascosta.

Ogni sua parte è stata costruita seguendo la retorica classica: Exordium, Narratio, Divisio, Confirmatio, Confutatio, Peroratio. Non ti ho spiegato il Trivio. Te l’ho fatto vivere.

Ecco cosa vuol dire educare al pensiero.

Non è un corso. Non è una tecnica. È un esercizio. Una disciplina. Un atto umano.

Oggi non ci serve una nuova intelligenza. Ci serve una nuova lucidità.

E la troviamo proprio lì dove credevamo che il tempo l’avesse sepolta: nel cuore del pensiero umano.

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