Anche questo terzo anno è passato. E io ci sono ancora.
Non so cosa scrivere, ma sono qui, seduto sul divano della nostra nuova casa mentre la sera accoglie gli sforzi e i privilegi di un’altra giornata. Vorrei tanto scrivere del mio cambiamento in questo terzo anno dalla dipartita di mamma, ma la verità è che mi sento bloccato. Da una parte non vorrei fare una cosa forzata, dall’altra non vorrei suonare saccente o, ancora peggio, pesante e pedante. È solo che ogni volta in questo periodo dell’anno è come se l’anima rivivesse quei momenti. A volte mi perdo a ripensare ai giorni e alle settimane prima di quel 5 maggio. La paura, quella vera. Il giorno in cui ho saputo della diagnosi, la prima chemio. Le bombole di ossigeno. Le camminate di pochi metri che diventano sempre più pesanti e impossibili. La mia anima sembra rivivere quella via crucis senza che me ne accorga. Ci sono cose che non dimenticherò mai, schegge che sono entrate così in profondità da essere diventate tutt’uno con i miei organi, anche quelli vitali.
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Il primo anno: attraversare l’abisso
Il primo anno è stato difficile fino a quando sono arrivato davanti alla cruda realtà. Quell’abisso che minacciava di portarmi alla pazzia dovevo attraversarlo e non più fuggirlo. Mi spaventava tanto, troppo. Tanto da portarmi a temere di impazzire dal dolore e dalla paura. A volte era un sibilo basso ma costante, altre volte un urlo in lontananza. Altre volte ancora era buio, e credevo di caderci dentro, di perdermici.
Sarei diventato un ostaggio di me stesso, provando a rifuggire la mia ombra. E allora ho cercato rifugio. Nella conoscenza, nei libri. Nel corpo, attraverso lo sport. Nella lucidità che ogni tanto tornava a farmi intravedere che c’era qualcosa da capire, da attraversare. Anche se faceva paura, ho provato — seppur tremante — a sbirciare in quell’abisso. A guardarlo dritto. A non distogliere lo sguardo. È stato proprio attraversando quei crateri che sono arrivato alla stanza del tesoro. Trovare la presenza nell’assenza. Così mi dicevo, e così auspicavo di fare.
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Il secondo anno: le realizzazioni filosofiche
Il secondo anno è stato invece l’anno delle realizzazioni filosofiche. Il seme del cambiamento è stato piantato proprio quel 5 maggio. La parola sacrificio, nel senso letterale del termine *sacrum-facere*, è perfetta per descrivere la mia evoluzione. Ho avuto rabbia, paura, poi di nuovo rabbia e ancora più paura. Una sola cosa è aumentata esponenzialmente: il coraggio di andare avanti. E, per quanto suoni frase fatta, quel coraggio l’ho trovato negli occhi e nei sorrisi dei nostri figli, nell’abbraccio incondizionato di mia moglie. Negli occhi profondi di mio padre e il cuore gentile di mia sorella. Non c’è scelta.
Ho sentito un grande senso di gratitudine, quasi commovente a volte, per il semplice fatto di esserci, di potermi svegliare al mattino. Una grande spinta alla vita, data dal vedere il passaggio di mamma. Ho capito per la prima volta che non vivevo nel mondo delle favole e che un giorno sarebbe toccato a me. È scattata una compassione universale. Ho sentito il peso della condizione umana e ho pensato e sentito che l’unica cosa da fare è aiutare chi come me si trova, troverà o si è trovato in questa situazione.
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Il terzo anno: il ritorno a Casa
Poi però è arrivata di nuovo la paura. La paura di avere poco tempo. Perché sì, avevo già realizzato quanto detto da Confucio sulla seconda vita dell’uomo quando capisce di averne solo una. La domanda era “ok, ma quindi ora che ho capito quanto tempo ho ancora?”. Non è facile convivere con questa domanda. Questo mi ha portato una rivoluzione che mi ha spinto a prendermi cura del mio corpo come tempio della mia anima. In fondo questo corpo fa del suo meglio da 39 anni per tenermi in vita. Quando non funzionerà più bene, finirà anche il lusso di poter partecipare a questo miracolo. Paradossalmente però, non ho iniziato a vivere più velocemente. Al contrario, ho rallentato. Ho ripreso la meditazione, lo studio, lo sport. Ho capito che come è importante selezionare cosa si mangia, è anche importante selezionare cosa si consuma. Ho alzato il livello dell’input e il livello dell’output non ha tardato ad alzarsi.
Nel corso dell’ultimo anno, qualcosa si è aperto definitivamente. Il passaggio da una visione esclusivamente materialistica a una più spirituale è stato graduale, ma irreversibile. Come scrive Tolstoj in Confessione, stavo cercando la risposta giusta nel posto sbagliato. Volevo capire il senso dell’esistenza indagando solo la vita — cioè il finito — mentre la domanda che mi portavo dentro chiedeva l’infinito.
Il dolore ha scoperchiato questa tensione. Non in un momento solo, ma come una diga che cede lentamente alla pressione dell’acqua che era già dentro da tempo.
E così, senza spettacolarismi, mi sono accorto che non potevo più ignorare le domande fondamentali. Ho cominciato a leggere (tra le altre cose) Pensieri per ogni giorno di Tolstoj e lì ho avuto due rivelazioni. La prima: il livello dell’input che scegli determina la qualità del tuo pensiero. La seconda: testi lontani tra loro nel tempo e nello spazio — da Lao-Tse al Talmud, dai Vangeli a Pascal, a Rushkin — dicevano in fondo la stessa cosa. Che c’è un’unica Verità di fondo. Una realtà che precede le religioni e le filosofie. E che, forse, è il luogo da cui proveniamo. E verso cui tendiamo.
Ho avuto sempre un rapporto molto diretto con la mia anima. Quella voce interiore — limpida, ostinata — mi ha guidato spesso controcorrente. Ho sempre avuto un coraggio innato nel seguirla e ora che guardo indietro mi rendo conto che proprio questo seguirla mi ha portato a realizzare i sogni che avevo da bambino. Solo di recente, leggendo Lewis, ho trovato le parole per nominarla: una legge morale che abita ogni uomo. Non è frutto della cultura, né della convenienza. È qualcosa di più antico, universale. E inizia a sussurrare davvero quando si smette di fare finta di niente.
La presenza nell’assenza ha preso la forma del vento, della musica, della natura. E non è più sembrata una metafora. Mi sono aperto a una realtà più ampia, come se avessi smesso di considerare verità solo ciò che vedevo con gli occhi. Ho avuto paura che fosse solo il mio dolore a farmi pensare così. Ma anche la mia parte scettica ha iniziato a cambiare tono: da negare a interrogare. Voleva ancora sapere la verità, ma senza più chiudersi davanti all’evidenza che stava accadendo qualcosa di nuovo.
Oggi custodisco questo centro con rituali semplici e vitali: lo studio, la lettura lenta, l’ascolto profondo della musica classica, la meditazione, l’attenzione a ciò che consumo, lo sport, la condivisione di ciò che imparo attraverso la scrittura (The Polymath Quest: Il mio viaggio verso la conoscenza) il podcast (per ora solo in olandese).
Ogni mattina, prima che la casa si svegli, scrivo, leggo, ascolto. Ogni giorno è un atto di gratitudine.
Scrivo a mano, raccolgo ciò che scopro e sento in quaderni che lascio in dono a chi verrà dopo di me. Vorrei che i miei figli sapessero che il loro padre ha cercato. E che non ha mai smesso di farlo. Che ha voluto amare, conoscere, restituire. E che ha imparato che solo l’amore per la bellezza — quell’Arte che ci insegna a trovare l’eterno nel quotidiano — può dare senso a tutto.
Questa è l’eredità che costruisco. La mia testimonianza. Il mio ringraziamento.
Alla Vita. A Mamma.
Anche questo terzo anno è passato. E io ci sono ancora.
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