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Photo by moren hsu on Unsplash
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L’illusione delle scelte infinite

Mi infastidisce terribilmente il sentirmi bloccato e non in grado di scrivere, soprattutto perché scrivere è la cosa che mi piace di più in assoluto.

Questa frustrazione non è un problema di scarsa disciplina, e non è nemmeno solo l’ombra del perfezionismo. È una questione di presenza. Qualsiasi cosa io stia facendo, ho sempre la spiacevole sensazione che dovrei star facendo un’altra cosa. E non importa se tutte queste sono attività che ho scelto e che vorrei fare: praticare Bach al pianoforte, allenarmi per un triathlon, studiare il greco antico, curare il mio secondo cervello.

Il problema, in sintesi, è che ho sostituito l’idea di fare le cose con il farle. L’Idea ha sostituito la Praxis.

La Velocità Impossibile dell’Idea

L’Idea vince sulla pratica perché, per sua stessa definizione, richiede zero tempo di esecuzione. Posso pensare di voler imparare a memoria un minuetto di Bach in un secondo. La Pratica richiede ore e fatica.

Questa dinamica non è un nostro difetto individuale, ma un sintomo dell’era in cui viviamo. Abbiamo un rapporto sbagliato con il tempo, derivante dalla nostra percezione accelerata:

1. Confusione Temporale: Abbiamo confuso il tempo della vita (finito, esperito soggettivamente) con il tempo del mondo (oggettivo, potenzialmente infinito). Ci siamo illusi di poter controllare tutto e di poter accelerare ogni processo.
2. L’Illusione dello Smartphone: Abbiamo ereditato l’aspettativa di una connessione istantanea e onnicomprensiva. Se posso connettermi al mondo in ogni momento, perché non dovrei poter portare a termine la mia lista di cose da fare con la stessa velocità?
3. Il Paradosso di Jevon: Come ha esplorato Oliver Burkeman, vivendo in una società accelerata, la nostra reazione è di aumentare la nostra velocità e la nostra efficienza. Ma si verifica il paradosso di Jevon: il tempo che guadagniamo non viene speso per riposare; lo riempiamo immediatamente con altre cose da fare. E quando queste non riusciamo a farle, le riempiamo con l’idea delle cose da fare. Ed ecco che arriviamo al blocco.

Il risultato è un sovraccarico emotivo: ci sentiamo sempre in debito di produttività, costretti a correre per giustificare la nostra esistenza. Se contasse come attività fisica, sarei Usain Bolt.

L’Atto di “Tagliare Fuori”

Questo è il punto cruciale che la nostra mente accelerata non vuole accettare: il mondo ha troppo di più da offrire di quanto sia possibile sperimentare in una singola vita.

Un altro paradosso è che anche se fossimo immortali, non potremmo comunque sperimentare tutte le scelte possibili. L’etimologia stessa della parola “decidere” (dal latino decidere) significa “tagliare via” o recidere. Quando prendiamo una decisione, per definizione, rinunciamo ad infinite altre.

Queste infinite rinunce sono incommensurabili—non possono essere misurate, confrontate o rimpiante. Eppure noi, ossessionati dall’ottimizzazione, pensiamo che possiamo calcolare la perdita e viviamo costantemente nel timore di sbagliare la scelta.

Platone usa un concetto simile parlando del nostro essere: se esiste un solo modo di essere, esistono infinite possibilità di non-essere. L’ansia moderna deriva dal voler essere tutto, negando l’atto essenziale del “tagliare fuori” che, in realtà, è ciò che dà forma alla nostra vita.

Leggi anche: Ciò che Sai È il Risultato di Ciò che Hai Scelto di Ignorare

La Soluzione: Riconquistare la Praxis con le Attività Ateliche

Per spezzare il dominio dell’Idea sulla Praxis dobbiamo fare una scelta radicale. Non si tratta di una nuova tecnica di gestione del tempo, ma di un cambiamento esistenziale che riporta lo scopo nel presente.

La soluzione sta nel prediligere e ricercare le attività ateliche, cioè quelle attività che hanno uno scopo in esse stesse e non nel prodotto finito (come le attività teliche).

Un’attività atelica è suonare il pianoforte solo per il piacere del suono; è camminare solo per il piacere del passo; è scrivere perché si ama il processo di trovare le parole giuste. Non sono giustificate dal futuro (il concerto, la gara, l’articolo pubblicato), ma solo dal presente.

Questa filosofia è in linea con l’idea di esistenza autentica di Heidegger (ne ho scritto sul mio Substack). Nel momento in cui ci dedichiamo a un’attività atelica, non siamo più mossi dal debito di produttività o dalla paura di perdere il tempo. Il fare diventa il proprio scopo, l’Idea scompare, e la nostra presenza si ristabilisce.

Scegli di essere lo scrittore che si gode la frase, invece di pensare all’articolo finito. Scegli di essere la persona che prende in mano un libro invece di pensare di leggerlo.

Scegli di essere.

Solo allora la paura di perdere il tempo si dissolve, e lo spazio che ci sembrava occupato dal blocco si riempie finalmente di presenza e pratica.

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famosa foto di Hemingway con il maglione a collo alto

Le 5 regole di Hemingway per il journaling

Il journaling è parte della mia routine mattutina da anni. Ho iniziato nel 2018, semplicemente sedendomi a scrivere ciò che avevo vissuto quel giorno. Tutto qui: scrivere.

Leggi anche: Journaling: una guida per principianti

Scrivere è pensare su carta. Farlo a mano ci obbliga a scegliere. In un mondo che ci sommerge di stimoli, il journaling diventa un esercizio di sottrazione: distinguere il suono dal rumore (Ciò che Sai È il Risultato di Ciò che Hai Scelto di Ignorare).
Quando riapro quei diari ritrovo dettagli che altrimenti sarebbero svaniti. Ed è proprio in quei dettagli che riconosco la forma di me stesso.

Insieme a Raymond Carver, Ernest Hemingway è uno dei miei scrittori moderni preferiti. Sono dipendente dal loro minimalismo quasi brutale. Le parole sono scelte con cura e parsimonia. Non spiegano: evocano. Come un odore, un suono, un’immagine improvvisa.

Quel modo di setacciare l’animo umano mi ha insegnato a dare un nome a tutto ciò che sento.
Da qui nascono i cinque consigli che ho tratto dalla routine di Hemingway, per chi vuole usare il journaling come pratica di consapevolezza.

1. Crea una routine definita

“When I am working on a book or a story, I write every morning as soon after first light as possible. There is no one to disturb you, and it is cool or cold, and you come to your work and you warm as you write.”
Ernest Hemingway

Hemingway mantenne questa routine per tutta la vita. Il journaling funziona davvero solo se diventa un’abitudine. Scrivere ogni giorno alla stessa ora lo trasforma da “una cosa da fare se riesco” a parte integrante della giornata. Come diceva William Faulkner:

“Io scrivo solo quando sono ispirato. Per fortuna, l’ispirazione mi colpisce ogni mattina alle nove.”

2. Inizia con una frase vera

A volte, all’inizio, trovare il flusso è difficile. Anch’io mi sentivo frustrato dopo alcune sessioni: avevo la sensazione di non aver scritto nulla di autentico.
Col tempo ho capito che era perché avevo mentito a me stesso. Scrivevo ciò che pensavo di dover scrivere, non ciò che avevo davvero dentro.

Hemingway consigliava di iniziare con una frase vera. Chiediti: “Cosa sto davvero pensando? Cosa mi preoccupa? Cosa desidero? Come mi sento, davvero?” Poi lascia che il cuore guidi la mano. All’inizio può essere scomodo, ma con la pratica la verità diventa naturale.

3. Scrivi senza giudicare

Trovata la frase vera, bisogna scrivere senza giudicare. Un grande scrittore — diceva Hemingway — sa osservare senza condannare. Solo così può entrare in un’altra realtà.

Quando giudichiamo ciò che scriviamo, lo forziamo nei limiti della nostra sensibilità. Il journaling serve a osservare, non a correggere.

Cercare dentro di noi significa incontrare pensieri che spaventano o feriscono.
Di solito li ignoriamo. Scriverli, invece, li rende visibili. E ciò che prende forma smette di infestare.

4. Descrivi i tuoi demoni

Scrivere senza giudizio porta in superficie ciò che nascondiamo, anche a noi stessi: dinamiche, ferite, paure che ci tengono in ostaggio.
A volte ci fanno credere di essere sbagliati.

Seneca scrive a Lucilio:

“Le cose che ci atterriscono sono più di quelle che in realtà ci affliggono.”

Dietro ogni malessere c’è un demone. Dargli un nome significa disarmarlo. Solo allora capiamo di essere noi al comando.

5. Fermati quando sai cosa scrivere

Hemingway si fermava quando sapeva già cosa avrebbe scritto il giorno dopo. Questo crea un ponte invisibile verso la sessione successiva.

Quando ti fermi, la mente continua. L’inconscio lavora sull’idea rimasta sospesa, la riempie di dettagli che la concentrazione non avrebbe mai visto. Non è romanticismo, si chiama Default Mode Network.

Conclusione

Il journaling non è un rituale di autoanalisi. È un esercizio di verità, di attenzione, di libertà. Scrivere ogni giorno significa imparare a vedersi con chiarezza — e a vivere con un po’ più di onestà verso se stessi.

“Se cerchi la verità, alla fine potrai trovare conforto; se cerchi conforto, non avrai né conforto né verità, bensì soltanto illusioni lusinghiere e fantasie consolatrici all’inizio, e disperazione alla fine.”
C.S. Lewis

Leggi anche: Dal Journaling Guidato al Secondo Cervello: Scrivere per Pensare Meglio

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una bella torta di compleanno con una candela per il primo compleanno di una bambina.
Photo by Diliara Garifullina on Unsplash

Il primo compleanno di nostra figlia

Mi piace immaginare così la nostra vita insieme: tu Luna crescente, all’inizio avrai bisogno del nostro supporto per essere completa. Noi non faremo altro che rifletterti la luce dell’amore che a nostra volta abbiamo ricevuto e riceviamo.

Tu crescerai, fino a diventare Luna Piena. Noi ci ritireremo per lasciarti splendere, per tornare poi a completarti nella tua vita da adulta, in qualsiasi forma possibile.

Chissà, forse allora sarai in grado di leggere le parole che ti ho scritto sul cuore quando ti ho accolta sul mio petto.

Così scrivevo quando sei venuta al mondo. E il nostro primo anno insieme è andato proprio così. Ti abbiamo vista crescere ogni giorno di più, notando ogni tuo piccolo cambiamento. Tu con quegli occhioni marroni che osservavi tutto intorno a te.

Fuori piove. Il vento sferza la pioggia. Un vento freddo che soffia via l’autunno per far posto all’inverno. Ci godiamo il tempo insieme.

Vorrei chiederti cosa pensi quando mi guardi. Chi vedi davanti a te? Cosa pensi di quest’uomo con la barba sempre più brizzolata che ti cambia i pannolini, ti prepara da mangiare, balla come un pazzo e riempie te, tua madre e tuo fratello di baci e abbracci? Quello un po’ buffo che forse prende in mano troppi libri.

Potrei citarti Platone, Pascal, Ruskin, Tolstoj, Sant’Agostino, Marco Aurelio, Epitteto, Ovidio e troppi altri. Mi illumino e mi nutro della loro saggezza provando ad ampliare la mia. Mi insegnano a vedere la profondità, quella che purtroppo abbiamo imparato a ignorare. Sento un fuoco bruciarmi dentro, un bisogno di crescere, di evolvermi. E allora scrivo, cerco ancora, mi pongo domande e provo a dare risposte. Non le trovo sempre.

Poi alzo lo sguardo e vedo il tuo bel viso osservarmi incuriosito. Hai in mano una bacchetta verde e ti sei fermata dal suonare il tuo tamburo preferito. Appena i nostri occhi si incontrano tu mi lanci un sorriso così vero da fare quasi male ed è lì che la saggezza anziché leggerla la sento.

Tutte queste persone parlano di Te, di ogni forma di Amore che arriva sulla terra a ricordarci il nostro posto e il nostro ruolo. Il resto è semplicemente superfluo. Un esercizio di stile nella migliore delle ipotesi. Un peccato nella peggiore.

La Verità rappresenta il punto di fuga su cui è costruita la prospettiva della nostra vita. Se cercherai bene nella tua anima potrai riconoscerla. Costruiscici sopra la tua vita.  La vita è quello che si rivela attraverso la coscienza, ed essa c’è sempre e dovunque. Il nostro errore è di chiamare vita ciò che ce la nasconde.

Non caderci amore mio.

Secondo Jung lo scopo della vita non è essere perfetti, ma essere completi. Per essere completi dovrai cercare e raccogliere pezzi dentro e fuori di te. Chiunque incontrerai può dartene uno. Chiunque. Io ho iniziato 40 anni fa e ora finalmente inizio a vedere l’intero mosaico. E pensa un po’, è proprio l’immagine del tuo sorriso.

Oggi è il tuo compleanno. Tante persone, tanti sorrisi. Tanti regali. Ma sappi che il regalo più grande lo hai appena fatto tu a me.

Buon primo compleanno amore mio!

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40 lezioni di vita in 40 anni con tutti gli interessi che una persona può avere.

40 lezioni in 40 anni. Ciò che la vita mi ha insegnato finora

40 anni. 14.610 giorni. 350.640 ore. 21.038.400 minuti.

Il mio cuore ha battuto circa 1,26 miliardi di volte.

Ho fatto più o meno 252 milioni di respiri.

Ho camminato almeno 44000 km.

Ho pianto, ho riso.

Ho amato.

Amo.

Quarant’anni sono lunghi abbastanza per vedersi finalmente per ciò che si è. Non si ha più voglia di apparire, si ha bisogno di Essere. Non si ha più bisogno di essere in tempo. Si ha bisogno di essere nel Tempo.

Quarant’anni mi hanno rivelato tante risposte e nuove domande. Più difficili.

Condividere è un verbo particolare: di solito dividere riduce, ma a seconda dell’oggetto, il risultato si moltiplica.

Ho scelto di condividere 40 lezioni raccolte nei miei primi 40 anni. Per moltiplicarne le gioie e le scoperte, sommare ciò che arricchisce, dividere ciò che pesa, trasformando ogni esperienza in qualcosa che resti, che sia utile anche a qualcun altro.

Fondamenta interiori

1. Cerca sempre la Verità. È il punto di fuga su cui è costruita la prospettiva della vita. Riconoscerla non è difficile. Accettarla lo è.

2. Pensa con la tua testa. Noam Chomsky spiega come siamo passati dal consumare informazione a consumare le opinioni sull’informazione. È una differenza sottile ma sostanziale. Vai alle fonti, confrontale, approfondisci e giudica tu stessa/o.

3. Logica, Grammatica, Retorica. Pensare, Scrivere, Parlare. Nelle prime università facevano parte del Trivio, 3 delle 7 arti liberali. Rappresentavano la base degli studi per qualsiasi indirizzo. Se pensi di non averne bisogno, devi metterti a studiarle al più presto. (Leggi: L’importanza del Trivio nel XXI secolo)

4. Allena la memoria. Ciò che memorizzi influenza i tuoi pensieri. I tuoi pensieri influenzano le tue azioni. Le tue azioni danno forma alla tua vita. (Leggi: L’Arte della Memoria)

5. Diventa consapevole di come passi le tue giornate. “Osserva bene e vedrai che moltissima parte di vita si perde operando male, molta facendo nulla, e tutta operando a rovescio. Metti insieme tutte le tue ore. Padrone del presente, penderai meno dall’avvenire.” (Seneca, Lettere a Lucilio).

6. Organizza il tuo sapere. Quanto ricordi di quanto hai letto, visto o sentito? Crea un sistema per ritrovare tutto ciò che impari. Io ho creato un secondo cervello (Leggi: Come ho costruito un secondo cervello).

7. Pratica una Dieta Informativa. Scegli 1 libro di fiction, 1 articolo lungo a settimana, 1 libro non-fiction per approfondire l’interesse del momento. Elabora ciò che leggi, fallo tuo. Lascia andare il resto. (Leggi: Come impostare una Dieta Informativa)

Corpo e disciplina

8. Prenditi cura del tuo corpo. Fa del suo meglio per tenerti in vita. Non ne avrai un altro. Impara a vederlo come il Tempio della tua Anima. Scegli bene come nutrirlo.

9. Pratica sport di resistenza. Come il nuoto, la bici, la corsa. Magari tutti e tre insieme. Imparerai che non esistono altri avversari che i tuoi limiti. L’unico avversario da battere sei tu stesso. (Leggi: Perché ho scelto di allenarmi per il mio primo Triathlon)

10. Pratica sport da combattimento. Imparerai a gestire la rabbia e la paura, gli unici due nemici da sconfiggere.

11. Non sottovalutare il riposo. È lì che il corpo e l’anima crescono e si evolvono. Non avere paura di andare a letto presto.

12. Riscopri la noia. È nel Default Mode Network che succede la magia. Idee, possibilità e occasioni altrimenti sepolte sotto notifiche e shot di dopamina.

13. Abbi pazienza con te stesso. Viviamo in un mondo in cui tutto deve essere veloce. È una bugia. “C’è un tempo per ogni cosa”, conceditelo.

Sapere e cultura

14. Crea una biblioteca personale. “Quale enorme ricchezza vi può essere in una piccola, scelta biblioteca. La comunione con persone sagge e degne, appartenenti a tutte le civiltà nel corso di migliaia di anni”. (R.W. Emerson)

15. Tieni un commonplace book. Raccogli frasi, citazioni, poesie, riflessioni. Tutto ciò che ti colpisce e ti ispira. Portalo con te e abituati a consultarlo ogni volta che senti il bisogno di prendere in mano il telefono. (Leggi: Il potere del commonplace book nell’era dell’AI)

16. Impara almeno una lingua straniera. “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, diceva Ludwig Wittgenstein. Imparare altre lingue vuol dire conoscere altri modi di vivere, di percepire sé stessi e la realtà.

17. Impara a suonare uno strumento. Disciplina ed espressione si incontrano. Imparate a riconoscere le profondità delle vostre anime e le capacità del vostro corpo. Vi aiuterà a comprendere di più voi stessi e quindi gli altri.

18. Impara a giocare a scacchi. Un misto perfetto di Arte, Forza e Bellezza.

19. Approfondisci la filosofia. Le domande che provi ad ignorare in modi più o meno distruttivi sono le stesse domande di tutta l’Umanità. Ci sono centinaia di persone che hanno dato risposte. Apri un loro libro e parlaci.

20. Leggi i Grandi Classici. Non sono “storie”, sono istruzioni d’uso per la tua anima. Una ricchezza di cui andare fieri.

21. Tieni un Reading Journal. Analizza ciò che leggi. Riflettici sopra. Fissa i tuoi pensieri dialogando con l’autore. (Leggi: Come ricordare ciò che leggi)

22. Scrivi online. Per condividere ciò che stai imparando e comprendere ciò che non hai ancora capito. (Leggi: Il metodo Feyman).

23. Scrivi a mano. Connette mente e corpo abbassando la velocità dei pensieri, che ti saranno più chiari.

24. Tieni un diario. Incastonare la tua vita in vene di inchiostro su un corpo di carta. Una ricchezza incommensurabile per te e per chi verrà dopo di te. (Leggi: Journaling: una guida per principianti)

Bellezza e creatività

25. Ascolta la musica classica. Ti educa alla bellezza e all’ascolto attento. Ti insegna a ricercare e riconoscere le forme. Ti mostra come esporre un’idea portandola alla sua massima espressione. (Leggi: Come ho scoperto il Deep Listening)

26. Vai ai concerti. Impara a riconoscere la tensione prima che sfoci nella bellezza. Ascolta, guarda, tocca, usa tutti i sensi.

27. Sostieni la cultura. Fai volontariato, donazioni, qualsiasi cosa in tuo potere per difendere, condividere e accrescere questo patrimonio sconfinato e preziosissimo.

28. Crea i tuoi rituali. Il rituale celebra l’Essere e il Tempo declinando passato, presente e futuro. Ti aiuterà a mantenere la rotta.

Relazioni e amore

29. Parla con i tuoi nonni. Fatti raccontare della loro gioventù, della loro vita. Fallo prima che i ricordi si mescolino con i sogni. Fanno parte di te, di ciò che sei diventato.

30. Osserva i tuoi figli. La magia dell’infanzia è data dalla capacità dei bambini di vivere completamente nel presente. Impara da loro.

31. Di’ “Ti voglio bene. Ai tuoi amici, ai tuoi genitori, al tuo cane, gatto. Chiunque. Cambierà la tua vita e la loro.

32. Di’ “Ti Amo. Provare l’Amore vero permette di contemplare Dio. Per riceverne di più bisogna condividerlo. Cambierà la tua vita e quella degli altri.

33. Riconosci i tuoi errori. Per chiedere scusa. Per imparare da essi. O entrambi.

Tecnologia e tempo

34. Riduci al minimo l’uso del telefono. 3 ore al giorno passate a scrollare sono 45 giorni l’anno. Cosa potresti raggiungere in 45 giorni?

35. Fai un digital detox. Pianifica periodi più o meno di lunghi senza internet. L’Uomo ne ha fatto a meno per migliaia di anni. Non è necessario come credi. Ne ritroverai anche il valore aggiunto.

36. Lascia i servizi di streaming. Ci siamo abituati a noleggiare la cultura. La cultura va posseduta. Toccata con mano. Consumata un pezzo alla volta, non a colpi di shuffle. Compra i libri. Compra la musica (si può anche digitale). Sarà la tua dote, che un giorno potrai donare. Ecco perché ho deciso di lasciare Spotify.

Vita profonda

37. Impara dal dolore. Ti sembrerà di impazzire. Per non farlo dovrai lasciar cadere tutte le maschere che indossi e vederti nella tua “miseria”. Sei abbastanza forte per farlo? (Leggi: Cosa si pensa davanti a una madre morente?)

38. Cura la tua spiritualità. Molto difficile nell’era della velocità e degli algoritmi. Eppure mai come ora necessario.

39. Impara ad ascoltarti. Dentro di te c’è una consapevolezza costruita perfettamente sulla Verità. Sa sempre cosa sia giusto fare. (Re)impara ad ascoltarla e sii forte abbastanza da seguirla.

40. Segui la tua curiosità. Anche e soprattutto quando sembra portarti fuori strada. In realtà ti sta portando via da quella sbagliata. “Quod curiositate cogniverunt, superbia amiserunt” (Ciò che hanno imparato per curiosità, lo hanno perso per orgoglio).

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Where is the life we have lost in living?

Ho ceduto anch’io.

All’inizio era solo curiosità. Poi è diventata efficienza, comfort, velocità. Ho iniziato a delegare piccole cose: un riassunto, un’idea, qualche parola in una lingua straniera. Ma, a poco a poco, ho delegato anche la fatica del pensiero.

Un giorno, ascoltando un video sull’“igiene cognitiva”, è comparsa una frase di T.S. Eliot che mi ha inchiodato:

Where is the life we have lost in living?
Where is the wisdom we have lost in knowledge?
Where is the knowledge we have lost in information?

Mi sono fermato. Perché ho capito che non stavo più pensando. Stavo solo processando. L’intelligenza artificiale non ci ha tolto il pensiero. Ma ci ha tolto qualcosa di più sottile: la frizione.

E con essa, la possibilità di scoprire chi siamo nel momento stesso in cui pensiamo davvero.

La frizione del pensiero

Pensare è una forma di resistenza. È il luogo dove si incontrano dubbio e desiderio. Il pensiero vero — quello che non segue una scorciatoia — nasce da una frizione: un attrito con la realtà, un’impasse, un gesto faticoso. Lo sa chi insegna, chi crea, chi ama.

Hannah Arendt scriveva che

“l’assenza di pensiero non è stupidità, ma assenza di dialogo.”

Quel dialogo è fatto di domande difficili, di attese, di errori.

È più facile chiedere a ChatGPT. Come dice Jamie Bartlett, è più facile pensare domande che cercare risposte. Questo dà anche un’illusione di competenza o pensiero critico, ma non dobbiamo dimenticare che il lavoro vero sta nell’analizzare informazioni e sintetizzarle.

Il paradosso della conoscenza

Secondo Nicholas Carr, le attività analogiche — leggere un libro, scrivere a mano, aspettare una risposta — allenavano il pensiero critico. Le abbiamo progressivamente eliminate in nome dell’efficienza.

Ma siamo davvero diventati più intelligenti?

Lo vedo più come un altro esempio del paradosso di Jevons: quando una risorsa diventa più abbondante e accessibile (come l’informazione), ne consumiamo di più, ma la usiamo peggio. Il risultato è un sapere superficiale, che non si sedimenta. Hai mai pensato a come ci siamo abituati ad affittare la cultura? Questa è stata una delle ragioni per cui Ho lasciato Spotify. Ecco perché.

Non abbiamo più bisogno di ricordare, né di cercare. Ci basta digitare, copiare, cliccare. Il sapere è ovunque. Ma la saggezza, quella che nasce dal tempo e dall’attrito, sembra altrove.

Leggi anche: Ciò che Sai È il Risultato di Ciò che Hai Scelto di Ignorare

La delocalizzazione cognitiva

Mi affascina la somiglianza con ciò che è accaduto nell’economia globale. La delocalizzazione industriale ha cambiato l’architettura del lavoro.

Oggi, stiamo assistendo a una delocalizzazione cognitiva: un trasferimento silenzioso del nostro pensiero verso strumenti che “pensano al posto nostro”. Non si tratta solo di outsourcing funzionale. È un cambiamento antropologico.

Più ci affidiamo a intelligenze esterne, meno alleniamo la nostra. Più ci separiamo dalla fatica del pensare, più ci allontaniamo da noi stessi.

E quando perdiamo contatto con la nostra identità, perdiamo anche la capacità di gestire l’ansia, la complessità, il limite.

Riconquistare il vivere

Questa riflessione non è una condanna dell’AI. Chi mi conosce sa quanto sia appassionato di tecnologia e come utilizzi l’AI per imparare meglio. Eppure proprio perché inizio a subodorarne le immense potenzialità mi rendo conto di quanto sia importante rafforzare le competenze personali e naturali.

È un invito a riconquistare il pensiero come gesto umano.

Possiamo scegliere — ancora — di:

Per i più arditi c’è sempre la possibilità di costruire un secondo cervello, come ho fatto io. Una struttura in grado di contenere molte più informazioni di quanto potrebbe fare il nostro cervello. Una struttura con la quale confrontarsi, farsi ispirare e continuare ad imparare, scoprendo cosa non sappiamo ancora.

metodo di studio zettelkasten

Uno screenshot del mio secondo cervello

Pensare è un atto sovversivo. Un gesto di libertà in un tempo di delega. Forse il futuro non ha bisogno solo di più risposte. Ha bisogno di domande migliori. Domande da porre a sé stessi. Domande che non vengono da un codice.

Vengono da chi ha avuto il coraggio di pensare — anche quando faceva male.

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Il Grande Inganno: Lusso, Necessità e il Costo Nascosto della Tecnologia

Ho letto recentemente un’intervista a Vauhini Vara, autrice e giornalista, su De Groene Amsterdammer 149/26. Vauhini è nata in Canada da genitori indiani. All’età di dieci anni si è trasferita negli Stati Uniti, prima in Oklahoma e poi a Seattle, dove il padre lavorava per la casa produttrice di aerei Boeing. Il punto centrale dell’articolo, che è poi ciò che l’autrice stessa si chiede, è come sia possibile riappropriarsi della propria individualità nell’era della tecnologia.

Per rispondere a questa domanda, Vara racconta dei grandi cambiamenti tecnologici che anch’io, come lei, ho vissuto in prima persona. Siamo la generazione a cavallo tra passato e futuro. Io ho conosciuto un’adolescenza senza telefoni: partite interminabili al campo da calcio, lunghe attese per treni e autobus che non passavano mai, andare a chiamare gli amici direttamente a casa o telefonargli sul telefono fisso. Poi è arrivato internet. Ricordo ancora il suono del modem a 56k e la prima volta che sono riuscito a installare il Wi-Fi a casa dei miei. Ricordo anche l’arrivo degli smartphone. Un mio amico se ne innamorò subito e rimasi colpito dal fatto che qualcuno volesse spendere così tanto per comprare l’iPhone. Non mi ispirava molta fiducia. Lo comprai di seconda mano un paio d’anni dopo, perché ormai me ne ero incuriosito e, in fin dei conti, non c’era molta altra scelta.

Ciò che mi ha colpito è questo: quando guardiamo al passato e lo confrontiamo con il presente, facciamo l’errore – peraltro comprensibile – di credere che tutto sia successo di colpo. I grandi cambiamenti in realtà sono l’effetto di tanti piccoli passi, ma compiuti a una velocità altissima.

Vara racconta di come, quando arrivò internet, credeva fosse uno spazio ideale per crescere e migliorarsi. Oggi invece realizza che anche allora, quando le aziende stesse forse ancora non realizzavano il potere che stavano accentrando nelle loro mani, l’intero sistema fosse già viziato, compromesso.

Non dobbiamo mai dimenticare che, dietro ai servizi veloci e apparentemente gratuiti, ci sono delle aziende che, come tali, seguono un preciso modello di business. Google, ad esempio, dà accesso a tutte le informazioni disponibili. Allo stesso tempo, però, guadagna sulla creazione – e successiva vendita – del nostro profilo personale con preferenze, interessi, spostamenti. Amazon punta sulla narrativa della trasparenza dei prezzi, ma di fatto utilizza strategie per escludere le aziende con minore disponibilità, annientando di fatto la concorrenza.

Vara, come Nicholas Carr, sostiene che ci sia bisogno di una presa di coscienza e quindi di responsabilità da parte dei consumatori. Non è vero che non possiamo cambiare le cose. È vero che durerà di più e sembrerà quindi più difficile. Non può essere altrimenti quando si ha a che fare con continue distrazioni e narrative che inibiscono il pensiero critico. Per questo, mai come oggi, è importante riappropriarsi di strumenti come il Trivium.

Leggi anche: Manuale di sopravvivenza al tempo degli algoritmi

Un altro aspetto da non dimenticare è che alcune di queste aziende, che promettono di collegarti con il mondo, possono allo stesso tempo controllare la diffusione di alcuni tipi di contenuti ritenuti arbitrariamente “non conformi alle direttive”. Non ci rendiamo conto del pericolo e del paradosso di questa situazione. Posso parlare in tempo reale con qualcuno che si è appena svegliato in Australia, ma qualcun altro può zittirmi oscurando il mio profilo o bloccando i miei contenuti. Questo, naturalmente, non succede alla luce del giorno. Non serve. Basta programmare un algoritmo in grado di “scoraggiare” certi contenuti.

Vara riflette su come persone come Zuckerberg o Altman con il suo Moore’s Law for Everything, non facciano altro che dipingere e descrivere minuziosamente un futuro che ancora non esiste e in cui “casualmente” i loro prodotti giocano un ruolo cruciale. Altman arriva a sostenere che grazie all’AI si arriverà al famoso Reddito di Base Universale per tutti, visto che l’intelligenza artificiale cambierà drasticamente la società. E se vuoi rimanere al passo, devi darti da fare. È una sorta di self-fulfilling prophecy, in cui ci si autoconvince che quello sarà il futuro e si comincia già ad agire di conseguenza. Yuval Harari spiega molto bene nei suoi libri l’importanza dei miti e delle storie condivise, gli unici collanti in grado di muovere milioni di persone.

Io sono un grande appassionato di tecnologia e di AI. Eppure, da un po’ di tempo, sento un campanello d’allarme che suona sempre più forte. C’è qualcosa che non mi torna, e per questo sento un bisogno sempre più grande di tornare alla base: scrivere a mano, pensare, riflettere, memorizzare. Alla base di tutto c’è la realizzazione di una dipendenza unilaterale. È iniziato tutto quando ho deciso di abbandonare Spotify. Questo cambiamento è arrivato non a caso intorno al 26 febbraio 2025. Quella data era la scadenza per scaricare i libri acquistati su Amazon. È stato allora che ho scoperto l’esistenza del DRM. Ho iniziato a chiedermi: ‘Ma quindi, cosa è davvero mio? Come è possibile che mi sia abituato a prendere in prestito la cultura?’ Di fatto, ero in una situazione in cui, se Amazon, Kobo, Spotify o chiunque altro decidesse di cambiare le condizioni, mi ritroverei a doverle accettare (quasi sicuramente a mio discapito, non dimentichiamo che si tratta di aziende private che hanno come mira il profitto, non certo il mio benessere), oppure a dover lasciare andare collezioni che mi ero illuso fossero mie.

Leggi anche: Ciò che Sai È il Risultato di Ciò che Hai Scelto di Ignorare

La stessa cosa sta succedendo nell’Educazione. Da insider, mi rendo conto dei vantaggi che l’AI può portare nel workflow e di come cambierà di fatto il modo di studiare. Mentre all’inizio, preso dall’entusiasmo della novità, guardavo solo le cose positive, ora mi preoccupo un po’ di più. Una tecnologia potente come questa si inserisce in una situazione in cui i giovani hanno già gravi problemi di concentrazione. L’accesso alla cultura e a contenuti più impegnativi è ormai visto come una perdita di tempo, una cosa obsoleta e inutile, anacronistica. Secondo Carr, le tecnologie che eliminano questa frizione eliminano di fatto la possibilità di interagire con le fonti primarie, di coltivare un pensiero critico e di sviluppare e coltivare un gusto personale (interessante: Il Trivio per il XXI secolo: pensare, parlare, distinguere). Tutte cose che, anche nella migliore delle ipotesi, non abbozzano scenari positivi.

Come afferma Yuval Harari in Sapiens:

Una delle poche ferree leggi della storia è che i lussi tendono a diventare necessità e a produrre nuovi obblighi. Una volta che ci si abitua a un certo lusso, lo si dà per scontato. Si comincia col farvi affidamento e si arriva al punto da non poter vivere senza di esso.”

Cosa fare?

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il continente americano e europeo ad una svolta epocale.

Il “dominio americano” e la crisi d’identità europea

Ho letto un articolo di Catherine De Vries, docente di Scienze Politiche alla Bocconi, che mi ha fatto riflettere profondamente. La relazione tra gli Stati Uniti e l’Europa, fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, si è basata su un patto di difesa reciproca e sulla salvaguardia di valori comuni: democrazia, libero mercato e stato di diritto. Un accordo che, di fatto, ha sempre favorito entrambe le parti, sia politicamente che economicamente. Ma siamo sicuri che sia ancora così?

Con la caduta del Muro di Berlino, gli equilibri si sono rimescolati, dando vita a due visioni opposte per il futuro dell’Europa. Da un lato, Margaret Thatcher sosteneva il mantenimento del “dominio americano” sul continente. Dall’altro, François Mitterrand, sulle orme di Charles de Gaulle, spingeva per un’Europa indipendente, con la Francia a guidare il polo di potere. La NATO divenne l’organo di controllo principale, e solo la Francia ne uscì, permettendo, secondo George W. Bush, di “mantenere gli ex-satelliti dell’URSS nel mondo libero”.

Un paradosso militare e una visione di un secolo fa

Secondo un articolo di Tom Stevenson su De Groene Amsterdammer (DGA 149/25), a distanza di oltre 35 anni dalla fine della Guerra Fredda, la presenza militare americana in Europa è ancora imponente: ci sono circa 39.000 soldati in Germania, 15.000 in Polonia, 13.000 in Italia, e migliaia di altri sparsi in basi militari dalla Norvegia a Creta. In Paesi come il Belgio, i Paesi Bassi, l’Italia e la Germania, ci sono persino bombe nucleari B-61 che possono essere usate solo su ordine diretto degli USA.

Charles de Gaulle

Questo solleva una domanda cruciale: se lo scopo della NATO fosse quello di mantenere gli ex satelliti sovietici nel mondo libero, come spiegava George W. Bush, perché ci sono ancora così tanti soldati e basi americane in Paesi che sono già liberi e democratici? In Ungheria, Bulgaria e Slovacchia ci sono circa 150 (!) soldati americani. La risposta, temo, ci riporta a una visione che un tempo sembrava anacronistica, ma che oggi si sta rivelando in tutta la sua attualità: quella di Charles de Gaulle.

 

Già negli anni Sessanta, l’ambasciatore americano in Francia, Charles Bohnen, avvertiva il ministro degli Affari Esteri Dean Rusk che la visione di De Gaulle rischiava di far diventare l’Europa un terzo polo di potere. Era questo, in effetti, uno dei punti chiave del Memorandum di De Gaulle del 1958, che proponeva una direzione tripartita della NATO con USA, Regno Unito e Francia. Questa proposta, che mirava a dare maggiore peso all’Europa nelle decisioni strategiche globali, venne rifiutata.
De Gaulle reagì con coerenza e determinazione: ritirò le sue forze navali dal Mediterraneo dal comando NATO nel 1959, poi dalla Manica nel 1963. Rifiutò di immagazzinare armi nucleari straniere in Francia e costrinse gli USA a trasferire 200 aerei militari fuori dalla Francia. Nel 1966, ritirò ufficialmente la Francia dalla struttura militare della NATO, chiedendo la rimozione di tutte le basi NATO dal territorio francese. Fu una grande prova di carattere e coerenza, e nonostante i vari tentativi, gli Stati Uniti non riuscirono a isolare la Francia in Europa.

Destabilizzare per mantenere il controllo

Questa strategia di destabilizzazione, volta a prendere il controllo attraverso influenze più o meno dirette, è una costante della politica estera statunitense. Basti pensare alla Crisi di Suez del 1956, un atto imperialista di Gran Bretagna, Francia e Israele. Seguendo il Protocollo di Sèvres, i tre Stati fecero un accordo per cui Israele avrebbe invaso l’Egitto. La Gran Bretagna e la Francia sarebbero intervenute per mettere pace e riprendere intanto il controllo sul canale di Suez, nazionalizzato da Nasser. Per riprendere il controllo della situazione, gli USA, sotto la presidenza Eisenhower, ricattarono i due Paesi europei minacciando di vendere le loro riserve di sterline e di bloccare i fondi del Fondo Monetario Internazionale se non si fossero ritirati. Per De Gaulle, che allora non era ancora presidente, fu la prova definitiva dell’inaffidabilità dell’America e della necessità di puntare a un’indipendenza europea. Per la Gran Bretagna, invece, fu la conferma che non bisognava mai mettersi contro gli Stati Uniti.

Oggi ci troviamo in una dinamica simile. Già con l’amministrazione Obama si erano visti i primi segnali di un distanziamento dall’Europa a favore di un’apertura alla Cina. Con un possibile secondo mandato di Trump, questo distanziamento si sta trasformando in una vera e propria rottura, con i toni tipici dell’autoritarismo attuale.

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Un’Europa unita e forte, con una moneta unica e un mercato autosufficiente, sarebbe l’incarnazione della visione di De Gaulle. È per questo che assistiamo a tentativi sempre più espliciti di disgregazione del continente: da Musk che incoraggia i tedeschi a votare per l’AfD, a JD Vance che alla Munich Security Conference afferma che il pericolo non viene dalla Russia o dalla Cina, ma dall’Europa stessa. La narrativa di figure come Peter Hegseth, nel famoso scandalo Signalgate, dipinge l’Europa come “superata, disarmata e non autosufficiente”, un continente da abbandonare al suo destino.

La cosa più preoccupante è che gli Stati Uniti si trovano in una posizione che permette loro di agire in modo impunito. Secondo il Financial Times, i diplomatici europei temono che gli USA utilizzino l’offerta di appoggio militare come ricatto per ottenere concessioni in ambito economico, ad esempio sulla regolamentazione di AI e Big Tech. A questo si aggiunge la dipendenza economica e infrastrutturale dell’Europa da software e cloud americani. Qualche anno fa, dopo l’elezione di Trump, un direttore di un ospedale all’Aia confessava di essere preoccupato: “Se Trump decidesse di spegnere quei server, non avremmo più accesso ai dati dei nostri pazienti”.

Un cambio di mentalità come propellente

Nonostante non condivida le sue idee di egemonia e grandeur francese, mi viene da pensare che forse De Gaulle aveva ragione. La sua visione sulla pericolosità del controllo americano sull’Europa, anche per mano della NATO, si sta rivelando in tutta la sua durezza.

L’unico modo per superare questo periodo è usarlo come propellente per un’unione ancora più profonda. Un’unione che parta dalla cultura che condividiamo da secoli e che ha portato alla creazione del pensiero occidentale. Si tratta di un cambio di mentalità che può essere difficile, perché ci siamo abituati così tanto all’influenza americana da non riuscire quasi a immaginare una vita indipendente, sia economicamente che culturalmente. Forse dovremmo tornare indietro nel tempo e ripassare la Storia, per capire chi è venuto prima di chi.

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Gentiluomini e gentildonne del passato che utilizzano lo smartphone.

Manuale di sopravvivenza al tempo degli algoritmi

Ci sono letture che arrivano come un’eco, altre come un presagio. L’intervista a Nicholas Carr che ho terminato ieri appartiene alla seconda categoria. Mi ha attirato perché Carr è uno scrittore, e gli scrittori possiedono un sismografo speciale per le scosse che attraversano la cultura. Ma soprattutto, mi ha attirato perché la sua tesi è un sasso lanciato nello stagno della nostra confortevole narrazione digitale.

La rivoluzione che stiamo vivendo, dice Carr, non è l’avanzamento che molti professano e quasi tutti danno per scontato. La sua posizione si ancora a un’osservazione tanto semplice quanto sovversiva:

L’iperconnettività in cui ci troviamo oggi non porta a una comunicazione migliore. Al contrario, la peggiora.

È una contro-narrazione, un sentiero che si allontana dalla via maestra. Da quando internet è diventato l’aria che respiriamo, la nostra capacità di concentrazione si è fatta più labile. Fatichiamo a restare su testi lunghi e complessi, la nostra mente, come un animale irrequieto, cerca costantemente una via di fuga. Il tempo stesso ha cambiato forma, si è compresso. Tutto deve essere immediato, a portata di mano, controllabile. Illudendoci, come scrive il filosofo Hartmut Rosa, che la realtà sia qualcosa che possiamo addomesticare.

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Immaginiamo il nostro pensiero come una T. Il tratto orizzontale rappresenta l’estensione della nostra conoscenza, la quantità di stimoli che riusciamo a intercettare. Quello verticale ne è la profondità. I due sono inversamente proporzionali: se uno cresce, l’altro si contrae. L’era in cui viviamo ha disegnato una T con una barra orizzontale smisurata e un’asta verticale quasi invisibile. Siamo diventati esploratori di superfici infinite, ma abbiamo perso la capacità di scavare.

Questa non è una colpa, ma un adattamento. Siamo esposti, in media, a 34 gigabyte di informazioni ogni giorno. Una valanga per cui il nostro cervello, un organo magnifico forgiato per la sopravvivenza nella savana, non è attrezzato. Il suo sistema operativo non è aggiornato alla velocità dei cambiamenti che abbiamo innescato. E così, per non soccombere, adotta una strategia: analizza e categorizza tutto nel minor tempo possibile. Un triage costante che alimenta la polarizzazione, perché per distinguere in fretta servono etichette nette, bianchi e neri.

Questa non è un’intuizione moderna. Più di un secolo fa, il sociologo Charles Horton Cooley identificò nelle tecnologie della comunicazione il motore primario del cambiamento sociale. Scoprì qualcosa di fondamentale:

Il modo in cui comunichiamo – non tanto ciò che comunichiamo – stabilisce il modo in cui pensiamo e agiamo.

Il mezzo non è neutrale, è l’architetto invisibile dei nostri pensieri. E il nostro mezzo ha eliminato quasi del tutto la “frizione”. Era proprio la frizione delle attività analogiche a rivestirle di significato. C’era una volontà precisa, una curiosità mirata dietro al gesto di prendere una rivista, mettere su un disco, aprire un libro. L’assenza di un’infinità di alternative costringeva all’attenzione. Con un lettore CD portatile avevi quel disco, e le opzioni erano ascoltarlo fino a carpirne le sfumature o non ascoltarlo affatto. Oggi, se una canzone non ci cattura in trenta secondi, annega in un oceano di milioni di altri brani.

L’automatizzazione dei processi ci ha semplificato la vita, ma come evidenziava già Carr nel 2014 in The Glass Cage, ci ha privato del valore che nasce dallo sforzo, dall’investire tempo ed energia per ottenere qualcosa.

Ma il vero punto di svolta, il momento in cui abbiamo ceduto la regia, ha una data precisa: 2006. Con l’introduzione del Newsfeed, Facebook smette di essere una bacheca gestita dall’utente e diventa un flusso curato da un algoritmo. La cosa più incredibile è che accogliemmo questa novità con entusiasmo, come un segno di progresso. Stavamo consegnando le chiavi della nostra cultura a un guardiano di cui non conoscevamo il volto, né le intenzioni.

Mi fa pensare al perché ho lasciato Spotify, o alla battaglia persa contro i DRM sui libri. La domanda è sempre la stessa: chi ha in mano la nostra cultura? Dove finirà il nostro pensiero critico, se il percorso ci viene indicato? Dove il nostro gusto, se non lo formiamo più per scoperta ma per suggerimento?

La grandezza dell’amore è inseparabile dalla profondità della mente, la larghezza della mente corrisponde alla profondità del cuore; per questo i cuori grandi raggiungono i vertici dell’umanità, e sono anche grandi menti.

Ivan Aleksandrovic Gončarov

Sarebbe un errore, però, attribuire tutta la colpa agli algoritmi. Sarebbe troppo facile. Gli algoritmi non generano disinformazione, fake news o odio. Gli algoritmi sono specchi che amplificano. Mettono in circolo i contenuti che funzionano meglio, quelli che generano più reazioni. E se quei contenuti sono richiesti, significa che qualcuno li crea e molti, moltissimi altri, li condividono.

La vera domanda, quindi, è un’altra: perché siamo così attratti dalla disinformazione, dalla rabbia, dalla polarizzazione? La risposta ha a che fare con le nostre debolezze più antiche: il negativity bias, la nostra tendenza a dare più peso alle notizie negative, e tutta una serie di distorsioni cognitive che abitano il nostro inconscio. In un’epoca che ci spinge costantemente verso l’esterno, siamo sempre più alla ricerca di distrazioni per evitare il confronto con il nostro mondo interiore, con il nostro sconforto emotivo.

Oggi, chi cerca un senso è visto come un nostalgico, un individuo fuori tempo massimo. Blaise Pascal diceva: “Guai a coloro che non conoscono il senso della propria vita: eppure la convinzione che è impossibile conoscerlo è così diffusa tra la gente che si esalta persino come saggezza il non desiderare di conoscerlo.” 

Eppure, è proprio da qui che potrebbe nascere il cambiamento. Secondo Carr, non verrà da una nuova tecnologia, ma da una reazione umana. Verrà da una generazione che, per la prima volta, sarà cresciuta completamente consapevole di questa espropriazione della cultura e della comunicazione. E come la generazione degli anni ’60 si ribellò al conformismo dei padri, questa nuova generazione potrebbe sentire il bisogno impellente di riappropriarsi della profondità. Di disconnettersi per riconnettersi davvero. Di ritrovare il silenzio necessario per ascoltare il proprio pensiero.

Forse, la vera rivoluzione non sarà tecnologica, ma sarà una rivoluzione dell’attenzione.

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interno di una casa bombardata
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Un mondo di carta

Quando vidi le foto che mi mandò mio fratello, provai ad immaginare il momento della distruzione. Ho pensato agli autori dei libri nella mia biblioteca. Si sono accorti del pericolo? Hanno avuto paura? Hanno provato a scappare?
Ho provato a immaginare i personaggi che provano a mettersi in salvo mentre la biblioteca crolla.
Sono morti ora. E io siedo qui e soffro per la loro perdita.

La biblioteca si trovava in un appartamento in un palazzo che non era stato ancora bombardato. I soldati israeliani lo utilizzavano come avamposto, vista la sua posizione strategica. Quando l’hanno abbandonato, lo hanno anche bombardato.

Atef Abu Saif – scrittore, politologo ed ex ministro della Cultura dell’ANP – aveva messo su una biblioteca di circa 1000 volumi. Aveva iniziato intorno ai 15 anni. Racconta di come avesse sempre avuto questo amore profondo per i libri. Il momento più bello era per lui quando aveva messo abbastanza da parte dalla paghetta, per andare in libreria e comprare un pila di libri. Poi tornava a casa, si sedeva al centro della sua cameretta, prendeva i libri uno ad uno e iniziava a toccarli, ad annusarli. “Ricordo l’odore di ogni libro”, dice. “Questo rituale era parte integrante del mio rapporto con i libri e le storie in essi contenute”.

Ha visto bombardare e distruggere la casa dove è nato e cresciuto. Eppure non gli ha fatto così male come quando suo fratello gli ha mandato le foto su whatsapp delle macerie del palazzo dove c’era la biblioteca. L’avamposto non era più necessario. Il palazzo è stato bombardato. “Questi erano gli appartamenti dove speravo di poter riprendere la mia vita dopo la fine della guerra.” Sorrido amaramente e allo stesso tempo ammirato nel vedere la forza della Speranza.

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“Certo, potrei ricomprare i libri,” spiega Saif “ma ci sono 3 tesori che ho perduto per sempre.”

I libri ereditati dal padre. Quando era piccolo e ha capito che la lettura e la scrittura erano la sua passione, ha letto e riletto i pochi libri nell’unico scaffale della libreria di suo padre. Erano classici della cultura araba. Libri che ha divorato da ogni possibile angolazione. Lo hanno aiutato a imparare a leggere, ad esprimersi, a scrivere (anche tecnicamente). Ricorda ancora il giorno in cui ha chiesto al padre se poteva portare quei libri a casa sua, quando andò a vivere da solo.

Poi ci sono 4 volumi del dizionario Al-Qãmus al-Muhīt, un classico della cultura araba del XIV secolo. Racconta quando sua madre scese dal taxi proveniente dai confini con la Giordania, lo guardò e gli disse: “Vieni a prenderti il tuo regalo” indicando il bagagliaio della macchina. Non riusciva a credere ai suoi occhi. Quegli scatoloni pesanti erano leggerissimi per lui. Ogni giorno ne apriva una pagina a caso leggeva. Oltre alle definizioni delle parole, c’erano le regole grammaticali relative e i riferimenti ai classici della letteratura araba. Una miniera d’oro.

Poi ci sono i manoscritti dei suoi primi 4 romanzi. “Inizio sempre la prima bozza a mano. Solo dopo averla finita passo al computer.”
“I miei personaggi sono fortunati.” dice. “Mentre scrivo i miei romanzi li vedo vivere e passeggiare intorno a me. Ma quando li termino metto il manoscritto su una mensola della biblioteca e loro continuano a vivere lì. È il loro posto sicuro. Non sono costretti a vedere la distruzione. A camminare per strade della loro gioventù e faticare a riconoscerle.”

C’erano anche 7 storie brevi che aveva scritto durante la prigionia nel 1992, quando venne arrestato e detenuto in Israele per aver preso parte alla prima Intifada. “Le ho ‘pubblicate’ appendendole al muro della cella. I primi e unici lettori erano i miei compagni di cella. Quando sono stato rilasciato le ho portate con me. Non le ho mai pubblicate e proprio ultimamente ne parlavo al mio editore arabo.”

Quando sono in visita sbircio sempre nelle librerie delle persone. È un modo infallibile per completarne il ritratto. Cosa leggono spiega cosa sentono, quali bisogni provano a soddisfare. E non devono essere per forza libri non fiction. Anche la scelta di generi e romanzi può dire molto. È sia una ricerca interiore – se guardo alla mia pratica – sia un racconto “fisico” del viaggio di una persona. Interessi che cambiano, sogni, delusioni.
Non si tratta della perdita di qualcosa che, per quanto difficilmente, possa essere ricostruito. Si tratta di qualcosa che racchiude la storia di una persona.

È come derubarlo del suo passato e ancora peggio, del suo futuro.

Questo articolo è stato ispirato da un articolo scritto da Saif per De Groene Amsterdammer (149/24). 

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Manuale pratico per affogare la verità

Cercasi storyteller con talento.
Requisiti: sguardo lucido, memoria lunga, parole precise.
Compiti: salvare ciò che resta della verità, prima che venga inghiottita dal rumore.

Ho pensato a questo annuncio mentre leggevo un lungo saggio pubblicato su De Correspondent. L’articolo parlava di verità, propaganda, nostalgia e disinformazione. Ma soprattutto, parlava di narrazioni. E mi ha fatto riflettere su una cosa che ormai do per scontata: chi racconta meglio, vince.

Non sempre vince chi ha ragione. O chi ha i fatti dalla sua parte.

Esistono due modi per soffocare la verità. Il primo è semplice: si reprime, come nei regimi autoritari. Censura, silenzio, minaccia. È il mondo di 1984 di Orwell, dove la verità è chiara, ma pericolosa.

Il secondo modo è più sottile, ma altrettanto efficace: si annega la verità. La si diluisce, la si confonde. È il mondo di Brave New World di Huxley. Nessuna censura, ma un’infinità di versioni contrastanti. Un oceano di parole in cui anche il marinaio più esperto finisce per perdere la rotta.

Ed è proprio qui che entra in gioco lo storytelling.

Viviamo in un’epoca in cui ogni cosa viene raccontata. Ogni tweet, ogni spot, ogni titolo. La realtà non è più solo ciò che accade, ma come viene narrata. E allora mi chiedo: chi sta scrivendo le storie che ascoltiamo ogni giorno?

Spesso non siamo noi.

I leader populisti lo sanno bene. Conoscono la potenza della nostalgia. Rievocano un passato glorioso — anche se non è mai esistito. Un passato in cui “si stava meglio”, ma forse solo perché non si sapeva. Non si misurava l’inquinamento. Non si registravano i flussi migratori. Non si dava voce a chi stava ai margini.

Rob Wijnberg, l’autore dell’articolo che ho letto, fa notare che il passato mitico evocato da Trump — e, fino a poco tempo fa, da Musk — è quello del XIX secolo americano. Un’epoca in cui non c’era meno immigrazione: semplicemente non si vedeva. Non c’era meno inquinamento: semplicemente non si misurava. Non c’erano meno tensioni sociali: semplicemente non venivano raccontate.

Eppure è questa narrazione, semplice e rassicurante, a conquistare. Perché promette libertà, mentre la realtà offre solo dati allarmanti e scenari inquietanti.

Così Musk viene acclamato quando compra Twitter per “ripristinare la libertà di espressione”.

Zuckerberg, dopo l’elezione di Trump, toglie il fact-checking da Facebook perché “la gente deve potersi esprimere liberamente”.

E intanto la verità annega.

Si scredita la scienza, si deride chi vuole ragionare, si tagliano i fondi alla ricerca. Negli USA si vieta l’uso di parole come transizione o emergenza climatica. Si cancellano studi. Si chiudono collaborazioni tra scienziati.

Anche l’Europa non è immune: nei centri per rifugiati olandesi, ad esempio, si servono i pasti in piatti con scritto “Qui lavoriamo al tuo rimpatrio.”

Tutto questo, in nome della libertà.

Ma quale libertà?

Harari, in Sapiens, lo spiega bene: gli esseri umani si uniscono attorno a storie condivise. Dei, nazioni, aziende. Apple non è una persona, ma chi possiede un iPhone sa di appartenere a un’identità. Sa di “far parte”.

Anche la libertà è una storia. E come ogni storia, dipende da chi la racconta.

Putin parla di “demilitarizzazione dell’Ucraina”. I nordcoreani parlano di Juche — autosufficienza — per giustificare l’isolamento. E chi vuole dirti che puoi dire tutto, in realtà vuole solo che non dica qualcosa.

In questo spazio ambiguo nasce il reazionarismo: una verità che non cerca i fatti, ma una conferma. Un’identità. Un nemico.

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Spinoza, nel suo Trattato Teologico-Politico, lo diceva secoli fa:

“Gli uomini combattono per la loro schiavitù come se fosse la loro liberazione.”

Anche oggi accade. Lo vediamo con Netanyahu, accusato persino da veterani come Uri Tyroler di portare avanti la guerra solo per mantenere il potere. Lo vediamo in chi si oppone al cambiamento climatico non con argomenti, ma con meme. In chi scambia il fact-checking per censura.

E allora torno alla domanda iniziale.

Cercasi storyteller con talento.

Perché serve qualcuno che racconti un’altra verità. Quella vera, che nasce dalla realtà. Dalla responsabilità. Dal dubbio, perfino.

Una verità che non nega la complessità, ma la abita.

Che non ci libera dalla realtà, ma dentro di essa.

Una voce capace di dire, come Ruskin:

“La natura non consente a una grande verità di rivelarsi a chi, prevedendo le sue conseguenze, la respinge.”

E allora chi ha visto la luce, come nel mito della caverna, deve anche tornare indietro.

Raccontare ciò che ha scoperto. Rischiando il rifiuto. Rischiando l’incomprensione.

Ma è l’unico modo.

Forse non per cambiare il mondo. Ma almeno per non smettere di cercare la verità.

E per non lasciarla nelle mani di chi, con una storia ben costruita, la farà sparire.

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