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gruppo di manifestanti
Photo by <a href="https://unsplash.com/@mikenewbry?utm_content=creditCopyText&utm_medium=referral&utm_source=unsplash">Mike Newbry</a> on <a href="https://unsplash.com/photos/protestors-hold-signs-during-a-political-demonstration-WtWcj_xqSH4?utm_content=creditCopyText&utm_medium=referral&utm_source=unsplash">Unsplash</a>

Il fascismo moderno non urla più. Ma parla.

“Gli uomini lottano per la loro schiavitù come se fosse la loro liberazione.”

— Baruch Spinoza

Questa frase mi torna in mente ogni volta che leggo certe notizie. Ma qualche giorno fa, leggendo un articolo su De Groene Amsterdammer firmato da Thijs Lijster, ha risuonato come un grido.

Come si riconosce il Fascismo?

È una domanda che suona provocatoria, anacronistica persino. E invece è urgentissima.

Adorno ci aveva avvisati.

Theodor Adorno, nel 1967, scriveva:

“Se vogliamo comprendere il fascismo – e se vogliamo combatterlo dobbiamo prima comprenderlo – dobbiamo imparare a riconoscere la forma storica che assume ai giorni nostri.”

La forma è cambiata. L’essenza no. Il fascismo di oggi ha smesso i simboli ingombranti. Non chiede più di morire per la patria, ma pretende che la patria ci garantisca ogni piacere, ogni privilegio. È edonista, narcisista, vittimista.

La libertà come maschera.

Il suo volto nuovo si cela dietro slogan sulla “libertà”. Ma quale libertà?

Quella di, ad esempio:

  • guidare a 130 km/h, anche se è dimostrato che ridurre a 100 salva vite e riduce emissioni (come qui nei Paesi Bassi);

  • lanciare fuochi d’artificio a Capodanno, anche se gli ospedali sono in emergenza e i medici sconsigliano;

  • discriminare, purché con “educazione”, perché “non si può più dire nulla”;

  • non essere disturbati dai poveri, dai rifugiati, dai diversi, che turbano il nostro comfort.

E quando l’estremismo diventa normalità?

È successo. Sta succedendo.

Geert Wilders, leader dell’estrema destra olandese (che ha appena fatto cadere il governo), ha scritto su X dopo la caduta di Assad in Siria:

“Festeggiate la fine del Ramadan nel vostro Paese con le vostre famiglie. Non qui. Ciao.” Rivolto ai siriani rifugiati nei Paesi Bassi.

In alcuni centri di accoglienza sono comparsi piatti con la scritta:

“Qui lavoriamo al tuo rimpatrio.”

E negli Stati Uniti, mentre il senatore JD Vance fa la morale all’Europa sulla libertà d’espressione, si censurano libri scolastici e ricerche universitarie che parlano di clima, identità di genere, storia coloniale.

Tutto è sempre un “piccolo passo”. Ma ogni passo sposta il confine. E alla fine non sappiamo più dove sia.

Il mito della rinascita.

Il fascismo moderno – ci ricorda Roger Griffin – si riconosce da quattro elementi: nazionalismo, populismo, reazione e mito della rinascita.

È proprio questo il punto: la promessa di un grande ritorno. Di un prima che non è mai esistito. Un’epoca in cui tutto era più semplice, l’identità più chiara, il mondo più “nostro”.

Working towards the Führer.

Lo storico Ian Kershaw l’ha descritto bene. Nel Reich, Hitler non doveva dare ordini dettagliati. Bastava indicare la direzione. E i suoi seguaci, per zelo, facevano tutto il resto.

È questa la dinamica più inquietante:

non serve più una dittatura conclamata. Basta un clima. Un desiderio. Una retorica.

Il resto lo fanno le persone comuni, giorno dopo giorno. Normalizzando. Giustificando. Adeguandosi.


E quindi?

Non scrivo per allarmare. Ma per riconoscere.

Perché se c’è una cosa che ho imparato dai libri e dalle storie – anche da quella degli obiettori israeliani di cui ho scritto pochi giorni fa – è che la prima forma di resistenza è lo sguardo.

Guardare in faccia le cose. Chiamarle per nome. Non cedere all’abitudine.

Se vogliamo libertà vere, dobbiamo imparare a vedere anche quelle false.

E smettere di scambiare la comodità con la giustizia.

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gruppo di soldati obiettori di coscienza
Photo by [Toa Heftiba](https://unsplash.com/@heftiba?utm_content=creditCopyText&utm_medium=referral&utm_source=unsplash) on [Unsplash](https://unsplash.com/photos/group-of-armed-men-with-white-flag-Y1BdWi52y14?utm_content=creditCopyText&utm_medium=referral&utm_source=unsplash)

Israele dall’interno: il coraggio di disobbedire

Tempo di lettura: 6 minuti

Autore: Moreno Maugliani


Ho letto l’articolo Grenzen aan gehoorzaamheid di Simone Korkus, pubblicato su De Groene Amsterdammer 149 n. 20. Mi ha colpito profondamente perché in questo periodo ho finalmente ceduto alla reticenza e alla codardia di non esprimermi sulla tragedia in corso in Palestina.

Mi ha incuriosito anche perché affronta una realtà quasi completamente ignorata dalla stampa occidentale: l’obiezione di coscienza all’interno dell’esercito israeliano. È un fenomeno reale, crescente, e per questo probabilmente rimosso dal dibattito pubblico internazionale.

La frase che mi ha colpito di più è di Mattan Helman:

“Chi è pro-Israele ignora e rinnega ogni forma di critica a Israele. Chi è pro-Palestina non accetta niente proveniente da Israele.”

Una sintesi spiazzante e lucidissima di una situazione che troppo spesso ci costringe a scegliere una bandiera invece di affrontare la complessità.

Eppure, i movimenti interni di resistenza esistono. E crescono. Di conseguenza, aumenta anche lo scontro sociale. Uri Tyroler, patriota e combattente, sostiene che l’unica rivoluzione possa e debba avvenire dall’interno. La situazione è così tesa che, secondo Yair Lapid, leader dell’opposizione, Israele potrebbe precipitare in una guerra civile.

La resistenza dei militari è iniziata nel 2023, quando 41 riservisti si sono rifiutati di prendere parte all’attacco a Rafah. Secondo loro, una guerra prolungata e sproporzionata metteva solo più in pericolo ostaggi e civili innocenti. Anche a causa della narrativa dominante dei media israeliani, la loro opposizione non nasce tanto dalla compassione per i palestinesi, quanto dall’assurdità strategica del sacrificio di 891 soldati per salvare 59 ostaggi. Ventotto di loro si sono tolti la vita.

In questo contesto, la figura di Uri Tyroler assume un significato particolare. Cresciuto con il mito delle armi, lucidava l’uzi del padre a cinque anni. Dopo il 7 ottobre 2023 ha imbracciato le armi per difendere Israele come comandante di una unità civile. Ma sei mesi dopo è arrivata la consapevolezza:

“Più danni, distruzione e dolore infliggiamo agli abitanti di Gaza, più mettiamo a repentaglio la vita degli ostaggi e più difficile sarà raggiungere la pace.”

Secondo Tyroler, questa guerra e il rifiuto di negoziare non servono più a difendere Israele, ma solo a mantenere Netanyahu al potere.

Dopo quei primi 41 soldati, l’obiezione di coscienza si è diffusa rapidamente: oltre 11.000 tra riservisti, piloti, agenti del Mossad, medici, funzionari della sicurezza e membri dell’intelligence si sono apertamente dichiarati contrari alla guerra.

Secondo +972 Magazine, su 295.000 riservisti almeno 100.000 non si sono presentati alla chiamata del Miluim, il servizio militare obbligatorio di riserva. La cifra potrebbe essere ancora più alta, a causa della censura imposta ai media stranieri.

Con l’aumentare dei Refuseniks — il termine usato in Israele per “obiettori di coscienza” — sono nate anche organizzazioni per sostenerli. Una di queste è il Refuser Solidarity Network, fondata nel 2003 e oggi coordinata da Mattan Helman. Non si tratta di disertori, ma di persone che amano il proprio Paese e l’esercito, ma non accettano di obbedire a ordini che ritengono immorali o politicamente manipolatori.

Helman è figlio di padre ebreo e madre olandese non ebrea. Nella tradizione ebraica, l’identità si trasmette per via materna. Per la società israeliana, Helman “non è ebreo” e non può accedere al Bar Mitswa, rito di passaggio religioso riservato ai ragazzi di discendenza ebraica. Il fratello ha scelto la conversione, lui invece ha scelto di abbracciare la propria differenza.

A quindici anni, quando scoprì per la prima volta l’esistenza dell’occupazione israeliana nei territori palestinesi, ne rimase sconvolto. Cominciò a informarsi, a leggere testimonianze, a contattare realtà come Breaking the Silence. Decise di rifiutare il servizio militare. La madre e il fratello erano contrari: temevano che sarebbe stato emarginato. Il padre e gli amici, invece, rispettarono la sua scelta. Alcuni insegnanti lo invitarono persino a raccontarla agli studenti.

Il giorno della convocazione si presentò alla caserma e dichiarò la propria obiezione. La pena prevista era l’arresto per 20 giorni. Subì sei mesi di detenzione a intermittenza, segnati da manipolazioni psicologiche, privazioni del sonno, tecniche di sfinimento e umiliazione. Il trauma è tale che oggi, quando parla con qualcuno in uniforme, il suo corpo entra in allerta per riconoscerne il grado e usare il linguaggio corretto. Durante la detenzione, ogni errore linguistico veniva punito.

“Non sono contro l’esercito, ma contro gli obiettivi che ci vengono imposti dal governo. Il governo ha avuto il potere grazie al nostro voto. Con la nostra protesta vogliamo ricordargli che abbiamo anche il potere di revocarglielo.”

Uri Tyroler conclude con parole che, per me, hanno un’eco quasi biblica:

“La morte di ogni bambino palestinese è un debito morale che lasciamo ai nostri figli e nipoti.”

“Il modo migliore per servire il Paese che amo è non servire.”

In un contesto in cui la vita militare è ancora uno status sociale, dove persino nei colloqui informali si chiedono le “credenziali di guerra”, queste parole sono rivoluzionarie.

Forse non possiamo capire davvero cosa significhi rifiutare le armi in un Paese dove la guerra è parte dell’identità collettiva. Ma possiamo ascoltare chi lo fa. Possiamo domandarci: se fossimo noi al loro posto, cosa faremmo?

Leggi anche: Ciò che Sai È il Risultato di Ciò che Hai Scelto di Ignorare

Leggi anche: Il Trivio per il XXI secolo: pensare, parlare, distinguere

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een man die staat voor 3 deuren: logica, grammatica en retorica

Il Trivio per il XXI secolo: pensare, parlare, distinguere

Hai letto l’articolo Pensiamo ancora con la nostra testa? Questo è il suo fratello esplicativo. Qui ti porto dentro il significato profondo di Logica, Grammatica e Retorica e ti mostro perché ne abbiamo ancora bisogno oggi.

Viviamo immersi in un oceano di informazioni. Ne riceviamo a centinaia ogni giorno, ma quante ne trasformiamo in conoscenza? E soprattutto: quanti di noi sono ancora capaci di distinguere, esprimeree ragionare?

Il Trivio – le tre arti liberali di Logica, Grammatica e Retorica– era un tempo il fondamento dell’educazione. Oggi potrebbe tornare a esserlo. Ma non come disciplina da museo: come tecnologia mentaleper vivere con lucidità nel nostro tempo.

La Logica: pensare in un mondo rumoroso

Viviamo in un’epoca che privilegia l’opinione rispetto all’argomentazione, la velocità rispetto alla profondità. Ma la logica ci chiede l’opposto: ci costringe a rallentare, a pensare prima di parlare, a evitare scorciatoie mentali.

Un esercizio che allena questo muscolo è il journaling quotidiano, come racconto qui: Dietro le quinte del mio journaling ibrido

Nelle scuole medievali, la logica era “l’arte di distinguere gli argomenti validi da quelli invalidi”. Serve ancora oggi per smascherare fallacie, riconoscere connessioni illogiche, e difendersi dalle manipolazioni.

Pensiamo agli algoritmi dell’intelligenza artificiale, che non conoscono la verità ma solo la probabilità. Il loro funzionamento si basa su pattern statistici, non su significato.
(Approfondisco questo tema nell’articolo Come utilizzare l’AI per imparare meglio – Strategie e metodi pratici)

La logica è quindi il primo vaccino contro l’infodemia, contro l’illusione che tutto ciò che è detto sia automaticamente vero. Senza logica, non c’è libertà.

Applicazioni pratiche:

  • Individuare fallacie logichenei dibattiti pubblici e social
  • Allenare il pensiero con mappe argomentativeo dialettiche socratiche
  • Chiedersi: “Qual è la premessa nascosta di questa affermazione?”

come padroneggiare la logicaLa Grammatica: dare forma al pensiero

Se la logica struttura il pensiero, la grammatica gli dà forma. Le parole non sono solo veicoli di contenuto: sono strumenti per pensare meglio. Non si pensa in astratto, si pensa con parole precise.

Nel Medioevo, la grammatica era la prima arte da imparare. Significava imparare a dominare la lingua per dominare le idee. Non a caso logos in greco significa sia parola che ragione.

Lo studio delle Scritture ha un ruolo importantissimo in questo contesto, anche per quanto riguarda la memoria. (Ne parlo più a fondo nell’articolo La memoria, da tecnica retorica a gesto spirituale).

Saper usare la lingua non è solo questione di stile: è questione di chiarezza, coerenza, e di identità.

Applicazioni pratiche:

  • Costruire frasi brevi e precise nei propri testi
  • Espandere il proprio vocabolario attivo
  • Analizzare testi classici o articoli con occhio grammaticale: come è costruita questa frase? perché funziona?

come migliorare la grammatica

La Retorica: comunicare per costruire senso

Retorica oggi è spesso sinonimo di manipolazione. Ma nell’antichità era l’arte più nobile: quella di comunicare in modo efficace, etico e persuasivo. Non è l’arte di vincere, ma di costruire un ponte tra chi parla e chi ascolta. Richiede ascolto, empatia, precisione.

Nell’epoca dell’algoritmo e del content marketing, comunicare bene è fondamentale. Non basta avere ragione: bisogna saperla far comprendere.

Senza retorica, la logica rimane sterile e la grammatica muta.

Questo è anche il cuore del mio articolo sulla scrittura per pensare: Scrivere per Ricordare: Il Potere di un Commonplace Book nell’Era dell’AI

Applicazioni pratiche:

  • Usare la struttura classica: exordium, narratio, divisio, confirmatio, confutatio, peroratio.
  • Adattare il messaggio all’interlocutore
  • Fare esercizi di sintesi: “spiega il tuo pensiero a un bambino di 8 anni”

la costruzione di un discorso retoricoUna tecnologia dell’anima

Il Trivio non è un ricordo del passato. È una tecnologia dell’anima: un software mentale per navigare l’epoca dell’informazione senza naufragare.

Grammatica, logica, retorica: pensare, parlare, distinguere. Tre atti, tre arti, tre strumenti per essere cittadini e non semplici utenti.

(Ecco come cerco di integrare questa tecnologia nel mio Secondo Cervello)

Epilogo: anche questo articolo è… retorico

Ok, ora guardiamo meglio. Questo articolo è stato scritto seguendo la stessa struttura che ho appena spiegato:

  1. Exordium– Ti ho fatto una domanda implicita: siamo ancora capaci di pensare?
  2. Narratio– Ti ho introdotto la storia del Trivio
  3. Divisio– Ho mostrato la tripartizione in Logica, Grammatica, Retorica
  4. Confirmatio– Ho argomentato il loro valore con esempi attuali
  5. Confutatio– Ho smontato i pregiudizi che oggi abbiamo su di esse
  6. Peroratio– Ho concluso con una visione sintetica e ispiratrice

Hai appena attraversato il Trivio. Senza accorgertene. Ma ora puoi tornarci consapevolmente.

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Loittle dutch loopfiets als cadeau voor tweede verjaardag

Lettera per il tuo secondo compleanno

Oggi è il tuo compleanno e io non mi ricordo come fosse la mia vita prima di te. Ho mai avuto una vita prima di te? Oppure ho sempre vissuto verso di te?

A volte riesco a vedere tutto con chiarezza. È come se avessi fatto questo percorso in avanscoperta per te, per voi. Ho vissuto momenti felici, immensamente tristi, mi sono innamorato, ho vinto, ho perso. Ho scritto tutto da qualche parte dentro di me, con dovizia e disciplina.

L’ho purificato passandolo in quel cuore che può prendere tutte le forme, anche quella di un setaccio. Non sapevo perché, sapevo solo che dovevo farlo.

È stata la vita poi, a volte a colpi d’ascia, a volte rifinendo con lo scalpello, a togliere il superfluo. Ed ora ho spazio per capire la verità dietro la luce nei tuoi occhi. Nel suono della tua voce. Nell’universo del tuo sorriso. Mi si rivelano come se fossero stati sempre lì e io li riconosco in me e mi riconosco in essi.

Ecco perché dovevo farlo.

È così che ho trovato il Tesoro. C’è tanto oro dentro di me. E quest’oro non è mio. È vostro. Io ve lo rendo affinché anche voi impariate a riconoscerlo e cercarlo. Fino a quando sarà il vostro turno di passarlo a chi verrà dopo di voi.

Lo faccio con ogni bacio, con ogni abbraccio. Con ogni parola, o anche solo guardandoti. Con tutte le favole e i libri che ti leggo. La musica che ascoltiamo insieme. Quando balliamo come pazzi o facciamo colazione insieme. Quando mi chiedi di abbracciarti e io vorrei piangere tutte le lacrime che ho in corpo. Quando ti arrabbi perché non riesci a fare qualcosa e provo a spiegarti come fare. Quando hai paura e ti sento rilassarti nel mio abbraccio.

Non è forse questo lo scopo della vita? Per questo ti dico che mi sembra di aver vissuto verso di te.

Quando sentirai di voler fare del Bene, fallo senza chiederti perché. Non ascoltare chi ti dirà che stai sbagliando. Ascolta quella voce che so che senti.

Stai accumulando l’oro, proprio come ho fatto io. L’unico modo per goderne è condividerlo, rimetterlo in circolo. Fino a quando un giorno anche noi diverremo parte di quell’oro.

Quando sarai grande e rileggerai queste parole, penserai che siano troppo difficili, o magari pessimistiche. Lo capisco. Magari sarò ancora da qualche parte, con un libro o una penna. E tu sarai gentile abbastanza da non rinfacciarmele.

E se non ci sarò non preoccuparti. Rileggi queste parole. Le sentirai dentro al cuore. E allora si, sarò sempre con te.

Tanti auguri amore mio!

Leggi anche: Cronaca di Alexander

Leggi anche: Il primo compleanno di nostro figlio

Leggi anche: La nascita di mia figlia

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Trivium met een pen, papier en redenatie

Pensiamo ancora con la nostra testa?

Siamo sommersi di risposte, ma incapaci di scegliere

Viviamo nell’epoca della risposta. Tutto è a portata di click. Ogni domanda ha una soluzione, ogni problema una guida, ogni incertezza un algoritmo. Eppure, mai come oggi, sembriamo aver smarrito la cosa più umana di tutte: la capacità di pensare con la nostra testa.

Sappiamo trovare tutto, ma non scegliere. Abbiamo accesso a tutto, ma non sappiamo distinguere (leggi anche: Ciò che Sai È il Risultato di Ciò che Hai Scelto di Ignorare). In mezzo a milioni di contenuti, la mente si confonde, si appiattisce, si arrende. Il pensiero critico è diventato un lusso. O peggio: un ostacolo.

Il problema: sappiamo accedere, ma non comprendere

L’intelligenza artificiale ha accelerato ogni processo cognitivo (in questo articolo spiego come utilizzo l’AI per imparare). Ma non distingue il vero dal verosimile. Le scuole insegnano contenuti, ma non strumenti. I social premiano visibilità, non profondità. Il sapere è diventato consumo. L’educazione, prestazione. Il linguaggio, rumore.

In questo scenario, parlare di “ragionamento”, di “disciplina del pensiero”, sembra quasi fuori luogo. Come se fosse un retaggio del passato. Ma proprio ora, in questo mondo saturo e incerto, servono basi solide. Non nuove. Antiche. E ancora vive.

Tre chiavi per riattivare il pensiero

Cosa significa davvero pensare?

Per comprenderlo, ti propongo di attraversare tre dimensioni fondamentali. Tre facoltà che l’umanità ha coltivato per secoli per formare menti libere e lucide:

  • La capacità di ragionare
  • La capacità di esprimersi con chiarezza
  • La capacità di comunicare e persuadere

Ragionare per distinguere

Logica

Pensare significa distinguere. Vero da falso. Correlazione da causa. Ragionamento valido da sofisma.

Oggi, le IA producono contenuti credibili, ma non necessariamente veri. Senza logica, diventiamo preda di ciò che “suona giusto”. E ci fidiamo di ciò che si ripete più spesso.

La logica è l’antidoto. Ci insegna a sospendere il giudizio, a fare domande, a riconoscere le fallacie. È l’arte della distinzione.

Dire bene per pensare bene

Grammatica

Pensare bene significa anche nominare bene. Il linguaggio è struttura del pensiero. Se le parole sono confuse, lo è anche ciò che pensiamo.

Una mente allenata alla grammatica non è pignola. È libera. Perché sa dire, sa scrivere, sa comprendere.

Oggi, nella velocità della comunicazione, la grammatica sembra superflua. Ma è proprio ora che serve più che mai: per fermarsi, articolare, dare forma.

Comunicare per incidere

Retorica

Pensare bene significa anche comunicare bene. La retorica non è manipolazione: è costruzione dell’argomentazione.

Una buona idea, se mal detta, è un’occasione persa. La retorica ci insegna a conoscere il pubblico, a organizzare un discorso, a rendere un pensiero convincente senza svilirlo.

Saper parlare, oggi, è anche saper difendere la verità dalla superficialità. E questo è un atto politico, non solo linguistico.

Le obiezioni non mancano (e vanno ascoltate)

“Tanto ormai pensa tutto l’IA.”

No: l’IA simula il pensiero. Non lo vive. Predice, non comprende. Se non sappiamo pensare, saremo guidati da sistemi che non pensano affatto.

“Non c’è tempo per queste cose.”

Proprio perché siamo travolti dalla velocità, dobbiamo reimparare la lentezza della riflessione. Senza, saremo solo più rapidi nel cadere.

“Tanto nessuno ragiona più così.”

E allora? Quando ci si perde, non si segue la massa. Si torna alla fonte.

Una piccola rivelazione finale

Se sei arrivato fin qui, hai appena fatto qualcosa che in pochi fanno: hai pensato.

Hai seguito un ragionamento. Ne hai colto la struttura. Hai messo in discussione e poi riconfigurato le tue convinzioni.

E ora, guarda meglio: questo articolo era una lezione nascosta.

Ogni sua parte è stata costruita seguendo la retorica classica: Exordium, Narratio, Divisio, Confirmatio, Confutatio, Peroratio. Non ti ho spiegato il Trivio. Te l’ho fatto vivere.

Ecco cosa vuol dire educare al pensiero.

Non è un corso. Non è una tecnica. È un esercizio. Una disciplina. Un atto umano.

Oggi non ci serve una nuova intelligenza. Ci serve una nuova lucidità.

E la troviamo proprio lì dove credevamo che il tempo l’avesse sepolta: nel cuore del pensiero umano.

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un diario con una tazza di caffè su un tavolo vicino alla finestra per l'elaborazione del lutto

Tre anni dopo la perdita di mia madre

Anche questo terzo anno è passato. E io ci sono ancora.

Non so cosa scrivere, ma sono qui, seduto sul divano della nostra nuova casa mentre la sera accoglie gli sforzi e i privilegi di un’altra giornata. Vorrei tanto scrivere del mio cambiamento in questo terzo anno dalla dipartita di mamma, ma la verità è che mi sento bloccato. Da una parte non vorrei fare una cosa forzata, dall’altra non vorrei suonare saccente o, ancora peggio, pesante e pedante. È solo che ogni volta in questo periodo dell’anno è come se l’anima rivivesse quei momenti. A volte mi perdo a ripensare ai giorni e alle settimane prima di quel 5 maggio. La paura, quella vera. Il giorno in cui ho saputo della diagnosi, la prima chemio. Le bombole di ossigeno. Le camminate di pochi metri che diventano sempre più pesanti e impossibili. La mia anima sembra rivivere quella via crucis senza che me ne accorga. Ci sono cose che non dimenticherò mai, schegge che sono entrate così in profondità da essere diventate tutt’uno con i miei organi, anche quelli vitali.

Leggi anche: Cosa si pensa davanti a una madre morente?

Il primo anno: attraversare l’abisso

Il primo anno è stato difficile fino a quando sono arrivato davanti alla cruda realtà. Quell’abisso che minacciava di portarmi alla pazzia dovevo attraversarlo e non più fuggirlo. Mi spaventava tanto, troppo. Tanto da portarmi a temere di impazzire dal dolore e dalla paura. A volte era un sibilo basso ma costante, altre volte un urlo in lontananza. Altre volte ancora era buio, e credevo di caderci dentro, di perdermici.

Sarei diventato un ostaggio di me stesso, provando a rifuggire la mia ombra. E allora ho cercato rifugio. Nella conoscenza, nei libri. Nel corpo, attraverso lo sport. Nella lucidità che ogni tanto tornava a farmi intravedere che c’era qualcosa da capire, da attraversare. Anche se faceva paura, ho provato — seppur tremante — a sbirciare in quell’abisso. A guardarlo dritto. A non distogliere lo sguardo. È stato proprio attraversando quei crateri che sono arrivato alla stanza del tesoro. Trovare la presenza nell’assenza. Così mi dicevo, e così auspicavo di fare.

Leggi anche: Un anno senza mia madre: riflessioni sulla percezione del Tempo e del Dolore.

Il secondo anno: le realizzazioni filosofiche

Il secondo anno è stato invece l’anno delle realizzazioni filosofiche. Il seme del cambiamento è stato piantato proprio quel 5 maggio. La parola sacrificio, nel senso letterale del termine *sacrum-facere*, è perfetta per descrivere la mia evoluzione. Ho avuto rabbia, paura, poi di nuovo rabbia e ancora più paura. Una sola cosa è aumentata esponenzialmente: il coraggio di andare avanti. E, per quanto suoni frase fatta, quel coraggio l’ho trovato negli occhi e nei sorrisi dei nostri figli, nell’abbraccio incondizionato di mia moglie. Negli occhi profondi di mio padre e il cuore gentile di mia sorella. Non c’è scelta.

Ho sentito un grande senso di gratitudine, quasi commovente a volte, per il semplice fatto di esserci, di potermi svegliare al mattino. Una grande spinta alla vita, data dal vedere il passaggio di mamma. Ho capito per la prima volta che non vivevo nel mondo delle favole e che un giorno sarebbe toccato a me. È scattata una compassione universale. Ho sentito il peso della condizione umana e ho pensato e sentito che l’unica cosa da fare è aiutare chi come me si trova, troverà o si è trovato in questa situazione.

Leggi anche: Due anni senza mia madre: Lezioni e trasformazioni

Il terzo anno: il ritorno a Casa

Poi però è arrivata di nuovo la paura. La paura di avere poco tempo. Perché sì, avevo già realizzato quanto detto da Confucio sulla seconda vita dell’uomo quando capisce di averne solo una. La domanda era “ok, ma quindi ora che ho capito quanto tempo ho ancora?”. Non è facile convivere con questa domanda. Questo mi ha portato una rivoluzione che mi ha spinto a prendermi cura del mio corpo come tempio della mia anima. In fondo questo corpo fa del suo meglio da 39 anni per tenermi in vita. Quando non funzionerà più bene, finirà anche il lusso di poter partecipare a questo miracolo. Paradossalmente però, non ho iniziato a vivere più velocemente. Al contrario, ho rallentato. Ho ripreso la meditazione, lo studio, lo sport. Ho capito che come è importante selezionare cosa si mangia, è anche importante selezionare cosa si consuma. Ho alzato il livello dell’input e il livello dell’output non ha tardato ad alzarsi.

Nel corso dell’ultimo anno, qualcosa si è aperto definitivamente. Il passaggio da una visione esclusivamente materialistica a una più spirituale è stato graduale, ma irreversibile. Come scrive Tolstoj in Confessione, stavo cercando la risposta giusta nel posto sbagliato. Volevo capire il senso dell’esistenza indagando solo la vita — cioè il finito — mentre la domanda che mi portavo dentro chiedeva l’infinito.

Il dolore ha scoperchiato questa tensione. Non in un momento solo, ma come una diga che cede lentamente alla pressione dell’acqua che era già dentro da tempo.

E così, senza spettacolarismi, mi sono accorto che non potevo più ignorare le domande fondamentali. Ho cominciato a leggere (tra le altre cose) Pensieri per ogni giorno di Tolstoj e lì ho avuto due rivelazioni. La prima: il livello dell’input che scegli determina la qualità del tuo pensiero. La seconda: testi lontani tra loro nel tempo e nello spazio — da Lao-Tse al Talmud, dai Vangeli a Pascal, a Rushkin — dicevano in fondo la stessa cosa. Che c’è un’unica Verità di fondo. Una realtà che precede le religioni e le filosofie. E che, forse, è il luogo da cui proveniamo. E verso cui tendiamo.

Ho avuto sempre un rapporto molto diretto con la mia anima. Quella voce interiore — limpida, ostinata — mi ha guidato spesso controcorrente. Ho sempre avuto un coraggio innato nel seguirla e ora che guardo indietro mi rendo conto che proprio questo seguirla mi ha portato a realizzare i sogni che avevo da bambino. Solo di recente, leggendo Lewis, ho trovato le parole per nominarla: una legge morale che abita ogni uomo. Non è frutto della cultura, né della convenienza. È qualcosa di più antico, universale. E inizia a sussurrare davvero quando si smette di fare finta di niente.

La presenza nell’assenza ha preso la forma del vento, della musica, della natura. E non è più sembrata una metafora. Mi sono aperto a una realtà più ampia, come se avessi smesso di considerare verità solo ciò che vedevo con gli occhi. Ho avuto paura che fosse solo il mio dolore a farmi pensare così. Ma anche la mia parte scettica ha iniziato a cambiare tono: da negare a interrogare. Voleva ancora sapere la verità, ma senza più chiudersi davanti all’evidenza che stava accadendo qualcosa di nuovo.

Oggi custodisco questo centro con rituali semplici e vitali: lo studio, la lettura lenta, l’ascolto profondo della musica classica, la meditazione, l’attenzione a ciò che consumo, lo sport, la condivisione di ciò che imparo attraverso la scrittura (The Polymath Quest: Il mio viaggio verso la conoscenza) il podcast (per ora solo in olandese).

Ogni mattina, prima che la casa si svegli, scrivo, leggo, ascolto. Ogni giorno è un atto di gratitudine.

Scrivo a mano, raccolgo ciò che scopro e sento in quaderni che lascio in dono a chi verrà dopo di me. Vorrei che i miei figli sapessero che il loro padre ha cercato. E che non ha mai smesso di farlo. Che ha voluto amare, conoscere, restituire. E che ha imparato che solo l’amore per la bellezza — quell’Arte che ci insegna a trovare l’eterno nel quotidiano — può dare senso a tutto.

Questa è l’eredità che costruisco. La mia testimonianza. Il mio ringraziamento.

Alla Vita. A Mamma.

Anche questo terzo anno è passato. E io ci sono ancora.

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I percorsi della memoria nell'era moderna

La memoria, da tecnica retorica a gesto spirituale

Viviamo in un tempo in cui ricordare è opzionale. Ogni sapere, ogni data, ogni riferimento è esternalizzato, accessibile in pochi secondi. In apparenza, abbiamo delegato la memoria alla tecnologia per concentrarci su altro. Ma c’è un prezzo che stiamo pagando, più sottile e profondo: la perdita di un rapporto interiore con il passato, e quindi con noi stessi.

La memoria, storicamente, non è mai stata solo uno strumento per trattenere dati. È stata, prima ancora, una pratica spirituale, un esercizio dell’anima, un metodo per riconoscersi.

La memoria come contatto con l’interiorità

Già nell’antichità greca, la memoria era molto più di una funzione mentale. Per Platone, ricordare era l’atto con cui l’anima tornava in contatto con le verità già conosciute prima di incarnarsi. L’apprendimento era quindi un ricordo, un ritorno alla fonte.

Sant’Agostino, secoli dopo, descriveva la memoria come uno spazio dell’anima in cui Dio stesso risiedeva. In un passaggio delle Confessioni, scrive che la memoria contiene immagini, emozioni, ma anche verità più alte: un luogo misterioso dove l’uomo può incontrare Dio.

Questa idea è presente anche nella tradizione ebraica: nel Talmud si legge che la tensione dell’anima è il desiderio di tornare alla luce da cui proviene. Una definizione straordinaria che rende la memoria qualcosa di più che mentale: la esprime come movimento esistenziale.

Questo sguardo interiore sulla memoria è anche ciò che cerco di recuperare attraverso pratiche quotidiane come la scrittura libera e l’interstitial journaling, che permette di osservare il flusso mentale come un percorso e non come una reazione automatica.

L’arte della memoria come forma di disciplina

Nel mondo romano, la memoria era una competenza da coltivare: Cicerone ne faceva una tecnica per l’oratoria, ma Quintiliano la considerava parte della formazione morale. Ricordare non era solo utile: era uno strumento per affinare il carattere.

Nel Medioevo, con la centralità della parola sacra, la memoria assume un ruolo ancora più profondo. I monaci imparavano a memoria interi testi non per possederli, ma per meditarli e interiorizzarli. Memorizzare significava trasformare le parole in strumenti di trasformazione interiore.

Con il Rinascimento, la memoria diventa tecnica raffinata: il “palazzo della memoria” è una costruzione mentale dove ogni spazio contiene un’immagine, un concetto. Per pensatori come Giordano Bruno, questa pratica non era solo mnemonica, ma filosofica: una via per ordinare il mondo e accedere a livelli superiori di consapevolezza.

A questa ricca tradizione ho dedicato un approfondimento specifico nell’articolo L’arte della memoria, dove esploro come le tecniche mnemoniche abbiano attraversato secoli senza perdere la loro forza trasformativa.

Oggi: accesso senza connessione

Con la stampa, e più tardi con la rivoluzione digitale, è cambiato l’approccio: non più trattenere, ma accedere. Un cambiamento di paradigma potente, che ha reso la conoscenza più democratica, ma ha anche indebolito il legame personale con ciò che sappiamo.

Oggi ricordare sembra inutile, o addirittura inefficiente. Ma proprio questa apparente obsolescenza della memoria interiore ci segnala la sua necessità. Ricordare è scegliere cosa trattenere, cosa nutrire, cosa lasciare sedimentare. In questo senso, è un gesto spirituale, un atto selettivo che definisce chi siamo.

Nell’articolo Come ho smesso di perdere tempo online ho riflettuto su come la nostra attenzione, e quindi la nostra memoria, venga costantemente erosa da stimoli che non lasciano traccia. Recuperare uno spazio di silenzio e di sedimentazione è oggi una forma di resistenza.

Conclusione

Non è nostalgia. Non si tratta di opporsi al progresso. Si tratta piuttosto di riconoscere che il rapporto con la memoria è anche il rapporto con la propria direzione interiore.

Non possiamo delegare tutto. Non tutto ci può essere ricordato da altri. Alcune cose devono restare dentro. Alcune parole devono risuonare nel silenzio della coscienza, non solo nel feed.

La memoria, in questo senso, non è un archivio. È una scelta continua su cosa vale la pena trattenere per restare umani. E forse è proprio attraverso la memoria che possiamo costruire un secondo cervello che non sia solo un deposito efficiente, ma un ecosistema coerente con i nostri valori più profondi.

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notitieboek om te beschrijven wat je net hebt gedaan en wat je nu gaat doen.

Interstitial Journaling, una strategia per aumentare focus e produttività

Ogni giorno ci troviamo a passare da un’attività all’altra: chiudere un progetto e iniziarne uno nuovo, terminare una chiamata e aprire un’email, completare un compito e prepararsi al prossimo. In questi momenti di transizione, spesso ci portiamo dietro il “peso mentale” di ciò che abbiamo appena fatto, rendendo difficile concentrarsi su ciò che dobbiamo fare dopo.

Ed è proprio qui che entra in gioco l’Interstitial Journaling: una pratica semplice ma potente che mi ha aiutato a ottimizzare la mia produttività e a mantenere il focus nelle transizioni quotidiane. In questo articolo ti racconto come utilizzo questa tecnica, integrandola nel mio journaling su Obsidian, per svuotare la mente, migliorare la consapevolezza e ridurre la procrastinazione.

Cos’è l’Interstitial Journaling?

Proposto inizialmente da Tony Stubblebine e ripreso da Ness Labs, l’Interstitial Journaling è un approccio che prevede di annotare pensieri e riflessioni ogni volta che si passa da un’attività a un’altra. La pratica consiste nel rispondere a domande semplici come:

• Cosa ho appena fatto?

• Come mi sento riguardo al risultato?

• Cosa sto per fare?

• Quali sono le mie aspettative?

Questo processo svuota letteralmente la mente, permettendo di chiudere mentalmente l’attività precedente e prepararsi con chiarezza e intenzione alla successiva.

Perché Praticare l’Interstitial Journaling?

1. Svuotare la mente

Ogni attività che svolgiamo lascia un “residuo cognitivo”, che può interferire con il nostro focus sul compito successivo. Annotare ciò che abbiamo appena fatto riduce questo peso mentale.

2. Ridurre la procrastinazione

Tenendo traccia di ciò che facciamo e di come ci sentiamo, diventiamo più consapevoli delle frizioni o dei blocchi che possono portare a procrastinare. È più facile affrontare le difficoltà se sono chiaramente identificate.

3. Migliorare la produttività

Passare consapevolmente da un’attività all’altra significa ridurre i tempi di transizione e aumentare l’efficacia. Non solo fai di più, ma lo fai meglio.

4. Coltivare la consapevolezza

Riflettere su ciò che hai fatto e su ciò che farai ti permette di vivere le tue giornate con maggiore intenzionalità, evitando di agire in modalità “pilota automatico.”

Come Integro l’Interstitial Journaling nella Mia Routine

Ho integrato questa pratica nel mio journaling quotidiano su Obsidian, adattandola al mio flusso di lavoro. Ecco come faccio:

1. Uso di un Template

Ho creato un template dedicato, che posso caricare facilmente nelle Daily Notes di Obsidian. Questo template include domande strutturate per guidarmi nella pratica:

[Ora]: Quale attività ho appena terminato?

[Risultato]: Come mi sento riguardo a ciò che ho fatto?

[Prossima attività]: Cosa sto per fare e quali sono le mie aspettative?

Il template rende il processo rapido e replicabile, eliminando qualsiasi frizione.

2. Annotazioni Dettagliate

Ogni volta che termino un’attività, prendo nota:

• Cosa ho fatto: Un breve riepilogo del compito completato.

• Come mi sento: Un commento sul risultato o su eventuali difficoltà.

• Prossimi passi: Scrivo una lista puntata con ciò che devo fare, trasformando le azioni concrete in checkbox (usando Markdown).

3. Monitoraggio delle Pause

Un elemento fondamentale dell’Interstitial Journaling è annotare anche quando ti fermi e perché. Questo può sembrare banale, ma tenere traccia delle pause aiuta a capire se sono necessarie o dettate dalla procrastinazione.

Esempio:

• Ora: 15:30

• Attività precedente: Brainstorming per articolo.

• Motivo della pausa: Stanchezza mentale, pausa caffè di 15 minuti.

Benefici Che Ho Notato

Dopo alcune settimane di pratica costante, ho notato diversi miglioramenti:

• Meno dispersione mentale: Scrivere ciò che ho fatto mi aiuta a chiudere mentalmente le attività e a rimanere concentrato.

• Maggiore produttività: La transizione tra attività è diventata più rapida e fluida.

• Consapevolezza delle abitudini: Monitorare le pause mi ha fatto notare schemi di comportamento che non avevo considerato, come il bisogno di pause più frequenti nelle ore pomeridiane.

Consigli per Iniziare

  1. Inizia con semplicità: Prova questa pratica per una settimana, annotando solo i passaggi principali. Non è necessario farlo digitalmente. L’idea funziona benissimo anche su carta!
  2. Personalizza il processo: Adatta le domande e il template alle tue esigenze specifiche.
  3. Sii costante: Come ogni abitudine, l’Interstitial Journaling richiede tempo per consolidarsi. Fai in modo che diventi parte del tuo flusso quotidiano.

Leggi anche: Scrivere per Ricordare: Il Potere di un Commonplace Book nell’Era dell’AI

Conclusione: Una Pratica Piccola con Grandi Benefici

L’Interstitial Journaling può sembrare un’attività banale, ma ha un impatto sorprendente sulla produttività e sulla consapevolezza. È una pratica che non solo ottimizza la gestione del tempo, ma trasforma il modo in cui ti approcci alle tue giornate.

Se vuoi sapere di più su come integrare queste tecniche nel tuo journaling, puoi leggere il mio articolo su Journaling per Principianti.

Passare da Spotify a Qobuz

Ho lasciato Spotify. Ecco perché.

Certe scelte non arrivano da un giorno all’altro. Sono la somma di piccoli segnali, domande che ti porti dietro per mesi senza trovare il tempo di ascoltarle. Fino a quando succede qualcosa che ti costringe a guardare in faccia il problema. Nel mio caso, è iniziato con i libri.

La doccia fredda del DRM

Un giorno, Amazon mi ha inviato una mail: dal 26 febbraio non potrai più scaricare i tuoi libri. Erano libri che avevo comprato, non noleggiato. Eppure, venivo informato che sarebbero rimasti disponibili solo sulla loro piattaforma. A quel punto ho scoperto una verità che molti ignorano: quando compri un ebook su Amazon, non acquisti il libro. Acquisti una licenza d’uso. Non puoi copiarlo, non puoi prestarlo, non puoi nemmeno garantirti che rimanga uguale nel tempo. Amazon potrebbe rimuoverlo, modificarlo, censurarlo, e tu non potresti farci nulla.

Quella scoperta mi ha lasciato stordito. Non mi stavano togliendo un oggetto, ma il diritto di possedere cultura. Quei libri erano parte di me. Rappresentavano il mio percorso, la mia evoluzione. E ora mi accorgevo che non erano mai stati davvero miei.

La musica e l’illusione del possesso

È lì che ho fatto un salto mentale: se questo succede con i libri, cosa succede con la musica?

Da musicista, l’idea di affidare tutta la mia esperienza d’ascolto a una piattaforma come Spotify ha iniziato a farmi paura. E se domani decidessero di alzare i prezzi? O di cancellare certi brani o album? Io cosa avrei davvero?

Mi sono visto per quello che ero: un consumatore passivo. Qualcuno che aveva delegato a un algoritmo la scelta di cosa ascoltare. Non c’era più scoperta, più attenzione, più amore. Solo frammenti, playlist infinite, musica di sottofondo.

Spotify mi aveva insegnato a saltare da un brano all’altro. Avevo perso la capacità di ascoltare un album per intero, di lasciarmi portare da una narrazione sonora. Esattamente come era successo con i libri e l’infodieta, anche qui avevo bisogno di una svolta.

Qobuz: un’alternativa possibile (e necessaria)

L’ho trovata in Qobuz. Un nome strano, che a molti suonerà nuovo. Ma per me è diventata una scelta di campo.

Qobuz offre musica in qualità CD e hi-res (fino a 24-bit, 192 kHz). E la cosa più importante: ti permette di acquistare gli album DRM-free. Questo vuol dire che una volta comprati, sono davvero tuoi. Puoi tenerli, archiviarli, copiarli. Nessuno può toccarli o decidere cosa succede ai tuoi file. È una forma di libertà culturale che avevo dimenticato.

Ma c’è di più. Qobuz non è solo una piattaforma di streaming. È un ecosistema per chi ama davvero la musica:

•Magazine editoriali curati da critici, giornalisti e musicisti.

•Playlist tematiche costruite con criterio umano, non da un algoritmo.

•Libretti digitali da sfogliare, recensioni, contesto storico.

•Sezioni come “discografie essenziali”, novità consigliate, approfondimenti per genere.

Ieri, ad esempio, ho ascoltato una playlist con i brani pubblicati dai Beatles dopo lo scioglimento della band, il 10 aprile 1970. Ogni canzone era contestualizzata, spiegata. Era un’esperienza. Non un sottofondo.

Rallentare per sentire di più

Ho rispolverato le mie Beyerdynamic DT990 Pro, le stesse cuffie che usavo per mixare e fare mastering. Ho ascoltato di nuovo alcuni brani che pensavo di conoscere. E sono rimasto senza parole. Era come se non li avessi mai sentiti prima.

Mi sono chiesto: perché mi ero abituato a meno?

Perché avevo barattato la profondità con la comodità?

Da allora ho cambiato abitudine. Ascolto un album alla volta. Lo tengo in alta rotazione per giorni. A casa uso le cuffie aperte, in giro porto le Momentum 4. E quando trovo un album che voglio davvero tenere con me, lo compro con lo sconto per gli abbonati annuali. Sto iniziando una collezione personale, fatta di musica vera, possessa, scelta, curata.

Tornare ad essere il curatore della propria cultura

Ho capito che non voglio essere un consumatore casuale. Voglio essere un curatore consapevole.

Voglio ascoltare, non saltare. Voglio imparare, non solo sentire. Voglio nutrirmi, non solo distrarmi.

E forse la cosa più bella è che questo passaggio a Qobuz non è solo un cambio di piattaforma. È l’ennesimo passo nel mio percorso di consapevolezza. È la prosecuzione di ciò che ho iniziato con la dieta informativa, con la costruzione del secondo cervello, con la meditazione e il journaling.

È un modo per tornare a scegliere.

Oggi so che non possedere cultura è pericoloso. Che non scegliere cosa entra nella mia mente è una forma di rinuncia. E che un altro modo di vivere la musica – e la vita – è possibile.

Io ho scelto il mio.

Per continuare il viaggio

Questa non è solo la storia di un abbonamento. È un frammento di un percorso più ampio, che riguarda la consapevolezza, la cultura e la libertà interiore.

Se ti interessa esplorare gli altri passaggi di questo cammino, forse ti piaceranno anche questi articoli:

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Come costruisco il mio secondo cervello

Un sistema vivo, personale e creativo per trasformare ciò che leggo in ciò che sono.

Gedachten van analogisch tot digitaal

Dal Journaling Guidato al Secondo Cervello: Scrivere per Pensare Meglio

Il journaling è, senza dubbio, l’attività atelica più importante che ho integrato nella mia vita da quando mi sono trasferito nei Paesi Bassi. Ogni giorno, pagina dopo pagina, ho costruito una sorta di macchina del tempo su carta. Oggi mi basta sfogliare quei quaderni per ritrovare i pensieri, le emozioni e le sensazioni che hanno definito chi ero in quel momento.

Se vuoi davvero trasformare la tua pratica di journaling in uno strumento per la crescita personale, c’è una chiave semplice ma fondamentale: rileggere.

Scrivere senza aspettative, con l’unico scopo di svuotare la mente, è il primo passo. Ma è nella rilettura che avviene la vera trasformazione: ti permette di individuare pattern ricorrenti, scovare errori di valutazione, correggere approcci e, soprattutto, rivivere momenti che altrimenti andrebbero perduti.

In questo articolo ti spiegherò come ho unito journaling guidato su carta e organizzazione digitale delle idee in un sistema ibrido che mi permette di pensare meglio, riflettere in profondità e costruire un secondo cervello con Obsidian.

Scoprirai come funziona la mia routine quotidiana, come seleziono le riflessioni più importanti, come le collego tra loro e come questo processo abbia trasformato il mio modo di pensare e crescere.

Perché Ho Scelto una Routine Ibrida di Journaling

La scrittura a mano su un diario è sempre stata parte integrante della mia vita. Mi permette di rallentare, riflettere e connettermi in modo più profondo con ciò che penso e provo. Tuttavia, con il passare del tempo, ho sentito il bisogno di un metodo per integrare queste riflessioni in un sistema più organizzato e accessibile.

Ed è qui che entra in gioco Obsidian. Questo strumento digitale non solo mi consente di archiviare le mie note in modo ordinato, ma mi dà anche la possibilità di creare collegamenti tra idee, costruendo un vero e proprio “secondo cervello.” L’ibridazione tra analogico e digitale è diventata la soluzione perfetta per un journaling più ricco e funzionale.

Leggi anche: Costruire un Secondo Cervello con Obsidian: il metodo per organizzare idee e conoscenza

La Mia Routine Giornaliera con il Diario Cartaceo

Ogni mattina inizio la giornata con il mio diario cartaceo. Scrivo senza filtri: pensieri, emozioni, eventi significativi o semplicemente idee che mi vengono in mente. Non ci sono regole rigide, ma un flusso libero che mi aiuta a liberare la mente e a entrare e rimanere in contatto con il presente.

Scrivere a mano mi offre qualcosa che il digitale non riesce a replicare: un senso di autenticità e intimità. Il flusso dei pensieri rallenta al passo della velocità di scrittura e diventa automaticamente più chiaro e limpido. È come avere una conversazione con me stesso, senza distrazioni.

Per esempio, il mio diario è il luogo in cui traccio i miei progressi, rifletto su decisioni importanti e talvolta esprimo gratitudine per le piccole cose. È stato anche importantissimo nell’elaborare la perdita di mia madre. Ogni giorno, anche e soprattutto negli ultimi giorni insieme, ho scritto tutto ciò che provavo. Tutte le sensazioni che erano troppo forti e potenti per pensare di poterle gestire. Eppure sentivo che doveva esserci un modo per usarle a nostro favore. Verbalizzarle avrebbe magari aiutato me e molti altri a comprenderle meglio.

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Il Passaggio al Digitale: Sintesi con Obsidian

Alla fine di ogni settimana, di solito la domenica mattina, dedico un momento per rivedere ciò che ho scritto sul diario cartaceo. Scelgo le parti più significative e le trasferisco in Obsidian, organizzandole in una nota settimanale. Questo è il momento in cui le mie riflessioni diventano azioni.

Ecco come funziona:

1. Selezione: Rileggo le mie note cartacee e scelgo i pensieri o gli eventi che meritano di essere approfonditi o collegati ad altre idee. Li evidenzio secondo un mio codice. Per poi poterli ritrovare facilmente a fine revisione.

2. Organizzazione: Creo una nuova nota in Obsidian e inserisco i punti salienti, utilizzando 4 sezioni:

  • Riassunto della settimana. Qui scrivo brevemente cosa ho fatto durante i 7 giorni precedenti.
  • Lavoro. Qui riporto riflessioni, accadimenti, idee riguardanti esclusivamente il lavoro.
  • Riflessioni. Qui riporto idee, sensazioni, pensieri che meritano un approfondimento.
  • 3 Highlights. In questa sezione invece riporto in una frase tre accadimenti importanti della settimana.

3. Collegamenti: Aggiungo link ad altre note in Obsidian, costruendo connessioni tra idee. Ad esempio, un pensiero sulla gestione del tempo può collegarsi a una nota più ampia sul mio metodo di produttività, portandomi ad incrementare o modificare il modo di lavorare.

Questo processo non è solo utile, ma anche estremamente appagante. Mi permette di vedere come i pensieri di un giorno o di una settimana possano evolvere e intrecciarsi con altri, creando nuove intuizioni.

Come Obsidian Arricchisce la Mia Routine di Journaling

Obsidian è molto più di un semplice archivio digitale. È uno strumento che mi consente di dare nuova vita alle mie idee. Grazie alla funzione di link interni, posso connettere concetti diversi e scoprire pattern che non avevo notato prima.

Ad esempio, una nota settimanale può portarmi a creare un progetto più ampio, come un articolo o una nuova idea per il lavoro. Questo livello di flessibilità e dinamicità non sarebbe possibile con un semplice diario cartaceo.

Inoltre, con la pratica dell’Interstitial Journaling (presto ne scriverò), una strategia per aumentare focus e produttività, posso ottimizzare la produttività e mantenere la concentrazione nelle diverse attività, senza perdere la visione a lungo termine. Questa abitudine è diventata presto indispensabile nella mia The Polymath Quest.

I Benefici di una Routine Ibrida tra Carta e Digitale

Integrare carta e digitale nella mia routine di journaling ha portato enormi benefici. Ecco alcuni esempi concreti:

  • Profondità di riflessione: La scrittura a mano mi aiuta a connettermi con le emozioni, mentre Obsidian mi consente di trasformare quei pensieri in idee strutturate.
  • Organizzazione e accessibilità: Le note digitali sono facilmente consultabili e sempre a portata di mano.
  • Pensiero critico: Collegare idee diverse in Obsidian mi permette di sviluppare un approccio più analitico e creativo.
  • Eredità personale: Il diario cartaceo conserva il lato umano e intimo delle mie riflessioni, mentre il digitale garantisce che tutto sia preservato nel tempo.

Conclusione: Un Metodo di Journaling che Mi Fa Crescere Ogni Giorno

Questa routine di journaling ibrido ha trasformato il mio modo di riflettere, organizzare e crescere. Non si tratta solo di registrare pensieri o eventi, ma di costruire un sistema che evolve con me e che alimenta il mio pensiero critico.

Non so se questa pratica sia adatta a tutti, ma spero che la mia esperienza possa ispirarti a trovare il tuo equilibrio tra analogico e digitale. Se vuoi iniziare, dai un’occhiata al mio articolo sul Journaling per Principianti per scoprire come il journaling può arricchire la tua vita.