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tessere domino che formano la parola FOMO. Sullo sfondo un cellulare.

FOMO e JOMO: definizioni e strategie

Qual è la differenza tra FOMO e JOMO? In questo articolo spiego cosa sono e cosa puoi fare per passare dall’una all’altra.

Vediamo se indovino:

Sei a casa. È venerdì e la giornata è stata abbastanza lunga. Decidi di ordinare una pizza. Scegli un film da guardare dopo cena mentre ti rilassi con un po’ di musica.

Arriva la pizza, la tua preferita. Ti siedi a tavola, dove ti aspetta una birra ghiacciata. Ti gusti tutto nella lentezza della sera che avanza. Ti senti coccolato nel calore della tua casa.

Getti via il cartone della pizza, finisci la birra e metti via la bottiglia. Il divano ti guarda trepidante mentre ti avvicini. Sembra porgerti il telecomando. Ti siedi.

Pling

Una notifica accende lo schermo del telefono sul tavolino di fronte a te. Clicchi sulla notifica mentre ti lasci cadere sul divano.

Boom.

I tuoi amici sono a quella festa di cui parlavano qualche settimana fa. Ci sono proprio tutti. Manchi solo tu praticamente.

Poggi il telecomando e prendi il telefono con entrambe le mani. Ora vuoi scorrere tutte le stories che vedi. “Ma pensa te, c’è anche lei! E questa poi, sono andati proprio in quel locale che mi piace tanto”. Il battito cardiaco aumenta. Ti ritrovi a seguire tutti i tags e gli hashtags che vengono usati. Ti guardi intorno e ti senti completamente fuori posto. Tutto intorno a te ti sembra stupido ed inutile. Ti senti nervoso.

Butti il telefono sul divano e provi a guardare il film che avevi scelto. Dopo pochi minuti decidi di stopparlo. Non riesci a seguirlo e non ti piace più come credevi. Vorresti fare qualcosa ma non sai cosa.

Riprendi il telefono in mano e torni sui social per vedere se ci sono nuove stories. Ne trovi un paio. Di nuovo quel senso di inadeguatezza.

Valuti per un attimo di telefonare a uno dei tuoi amici e dirgli che li vuoi raggiungere. Ci ripensi e decidi di lasciar stare. Ti dondoli su questa altalena diverse volte, prima di abbandonarla.

La notte ormai è arrivata, tu non hai fatto nulla di ciò che ti eri ripromesso e vai a letto preoccupato di essere tagliato fuori. I tuoi amici si divertono tanto senza di te. Forse non sei così importante come credevi. Forse la tua compagnia non è necessaria. La tua vita è noiosa. Ti senti inadeguato. Fuori posto. Solo.

Hai appena avuto un attacco di FOMO.

Che cos’è la FOMO

L’acronimo FOMO sta per Fear Of Missing Out. L’espressione è stata usata per la prima volta da Patrick McGinnis in un articolo per la Harvard Business Review, dove racconta l’incredibile quantità di impegni che lui e i compagni di corso si prendevano per paura di perdersi qualcosa di importante.

Questo disturbo, che rientra appieno nei disturbi legati all’ansia, è basato su due elementi: il bisogno di sentirsi parte di un gruppo e l’utilizzo sregolato dei social network.

L’uomo è un animale sociale, l’abbiamo sentito tante volte. Abbiamo bisogno di sentirci parte di un gruppo. Grazie ai social network il nostro mondo è diventato più piccolo. Il rovescio della medaglia, è che il nostro “gruppo” di riferimento è diventato molto più grande.

Essere in costante contatto con tutto e tutti porta lentamente ma inesorabilmente a perdere il contatto con la realtà, dando l’illusione di avere troppe possibilità di scelta rispetto all’effettivo tempo libero. Scegliere cosa fare diventa difficile. Stabilire come impiegare un paio di ore libere diventa stressante.

La dottoressa Donata Pratesi, psichiatra del Centro Disturbi dell’Umore spiega:

Se ci sono tante opzioni di scelta, questo può portare alla percezione che le esperienze che stanno vivendo altre persone siano migliori e più interessanti. L’individuo perde il senso della realtà e si basa sull’interpretazione dei post dei social network”

Ci ritroviamo costantemente insoddisfatti. A compensazione, tendiamo ad utilizzare i social network ancora di più. Il circolo vizioso è partito e si autoalimenta perfettamente.

Ma cosa succede precisamente nel nostro cervello, quando non riusciamo a resistere all’impulso di prendere il telefono e aprire le solite app?

grafico a torta con spiegazione del ciclo della FOMO e JOMO

FOMO e dopamina

La dopamina è un neurotrasmettitore rilasciato dal cervello responsabile, tra le altre cose, delle sensazioni di piacere e ricompensa che proviamo in determinate circostanze.

Quando facciamo questo tipo di esperienze, il cervello prende nota di tutti i fattori che le hanno rese possibili per poterle ricreare al bisogno.

Perché c’è un problema: la dopamina dà assuefazione.

I social network sono dei dispensatori di dopamine shots per eccellenza. Gli algoritmi e alcune impostazioni delle app più famose giocano proprio sull’assuefazione. Alzi la mano chi, dopo aver postato una foto, un video o una storia, non apra l’app dopo qualche minuto per controllare quanti likes ci sono già (dai non fare il figo, l’hai fatto anche tu). Bene, alcune app sono impostate per ritardare le notifiche dei primi likes, per farti tornare più spesso nella speranza che nel frattempo tu cada nel rabbit hole dell’algoritmo.

Questi shots di dopamina diventano il modo in cui guardi alla tua vita. Identifichi la validità di ciò che fai con il numero di interazioni che questo riceve. Allo stesso tempo, è un modo per tenere sotto controllo le attività del gruppo.

Secondo la dottoressa Pratesi, è proprio il tentativo di sentirsi parte del gruppo che porta ad un sovra utilizzo dei social.

Se stai pensando “Beh basterebbe diminuire l’utilizzo dei social”, devo deluderti. L’astinenza dalla dopamina inibisce la corteccia prefrontale, la parte del cervello che di solito regola i nostri impulsi. Ecco perché mettere via il telefono, cancellare l’app o l’account può dare un senso di smarrimento.

È tutto molto più complesso di quanto pensavi, vero?

Disturbi legati alla FOMO

I disturbi legati alla FOMO possono essere gravi e invalidanti. Non devono essere sottovalutati. Tra i più ricorrenti troviamo:

– Dipendenza dallo smartphone

– Controllo ossessivo delle notifiche, anche quando non ce ne sono

– Stati d’ansia

– Stati depressivi

– Difficoltà a concentrarsi

– Procrastinazione

– Tachicardia

– Insicurezza

– Percezione più bassa della qualità della vita

Un’esposizione prolungata a questi sintomi può renderli strutturali e quindi più difficili da curare.

A questo punto ti starai chiedendo “Ok, ma quindi che posso fare?”

Vediamolo insieme.

Come combattere la FOMO

Ho una buona e una cattiva notizia. Iniziamo dalla buona: è possibile curare la FOMO. La cattiva: ti servirà molta forza di volontà. Questo può essere un problema in caso di alto livello di FOMO. Come dicevo prima, l’astinenza da dopamina blocca l’attività della corteccia prefrontale, che è la parte del cervello che ci permette di prendere decisioni.

In questo caso, il consiglio è sempre di consultare un esperto.

Kieran Setiya, professore di filosofia al Massachusetts Institute of Technology propone una prospettiva tanto interessante quanto logica: per natura le possibilità a nostra disposizione sono infinite. Come negli scacchi, ogni nostra scelta genera milioni di possibili scenari. Anche se fossimo immortali, non riusciremmo comunque a viverli tutti.

“La tua biografia deve avere una certa forma per distinguersi dalle altre”

Per combattere la FOMO, dobbiamo spostare l’attenzione sulla nostra realtà. Ho dei consigli pratici per farlo:

Tieni un diario. Il journaling è un’attività dalle mille risorse, ne gioverai tantissimo. Abituarti a riflettere e verbalizzare i tuoi stati d’animo ti aiuterà a tenerli sotto controllo (leggi questo articolo per saperne di più). Inizia anche ad annotare le cose che effettivamente hai. Quante cose hai la possibilità e il privilegio di fare.

Oltre a tenere un diario, ho deciso di tenere un blog sulla mia esperienza da neopapà. Mi sono riproposto di scrivere ogni giorno su una cosa – ed una soltanto – che ci è successa. Dopo 30 giorni, il mio modo di guardare alla vita è completamente cambiato.

Medita. Non pensare ai guru buddisti, o a rituali complicati. Puoi praticare la consapevolezza del respiro e il body scan comodamente seduto sul divano, o sulla tua panchina preferita. Io amo praticarla subito dopo essermi svegliato e prima del journaling. Mi aiuta a prendere contatto con la realtà tangibile.

Fai attività all’aperto. Io mi sono appassionato al Triathlon. Dovendo allenare tre discipline, ero fuori casa 3 o 4 volte alla settimana. Gli sport di resistenza hanno molto in comune con la meditazione. In entrambi i casi puoi raggiungere un contatto con te stesso impossibile nella vita di tutti i giorni. Molto utile per riappropriarsi del proprio corpo.

Usa le app in versione browser. Non installare le app dei social. Se lo hai già fatto, cancellale. Le app sono ottimizzate per l’UX (user experience), studiate per tenerti il più possibile online. Usandole dal browser sarai meno stimolato al mindless scrolling.

Imposta un timer per l’utilizzo del telefono. l’iPhone facilita questo tipo di rimedi. Io ad esempio ho impostato un blocco di tutte le app tra le 21 e le 07 del mattino. In quella fascia oraria ho accesso solo alle funzioni base del telefono.

Allo stesso modo, puoi impostare un limite per l’utilizzo di determinate app, anche nella versione browser.

Leggi (o ascolta) libri. Ho fatto un patto con me stesso: ho installato l’app Kindle (e Kobo, l’omologo olandese). Ogni volta che sento l’impulso immotivato di andare sui social, apro l’app e leggo fino a che resisto. Quel tempo che avrei perso nel rabbit hole di Instagram o Facebook, l’ho impiegato per leggere un libro. Game changing dicono quelli fighi. Ma è proprio così. Dobbiamo imparare ad essere gelosi degli impulsi che lasciamo entrare nel nostro cervello.

Infografica 6 consigli per FOMO e JOMO

JOMO invece di FOMO

Impostare queste attività nella tua routine quotidiana, vorrà dire ripristinare la percezione della realtà.

Il telefono non sarà più il centro della tua vita sociale, ma un semplice strumento che userai se e quando vorrai. Non sarà più interessante. La tua vita ora è piena di bellezza, di virtù direbbero i saggi, e non c’è più spazio per le cose effimere.

Non c’è altro posto in cui vorresti essere. Non vorresti fare altro che ciò che stai facendo (o non facendo). Non desideri altra compagnia di quella che hai.

CONGRATULAZIONI!

Hai appena provato la JOMO, Joy Of Missing Out.

Vivere nei Paesi Bassi: l’importanza di imparare l’olandese

La prima cosa che ho voluto fare dopo essermi trasferito nei Paesi Bassi è stata imparare la l’olandese. È una questione di rispetto per il Paese che mi ospita, oltre che un arricchimento smisurato per me.

“I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo” diceva Ludwig Wittgenstein e io sono troppo curioso per rimanere dentro i miei di limiti. Esprimersi in un’altra lingua influenza profondamente il modo in cui ci si rapporta con la realtà. La grammatica stessa obbliga a descriverla in maniera diversa. La percezione cambia a seconda della lingua che si utilizza.

Non esagero quindi, quando dico che imparare l’olandese mi ha donato una nuova vita.

Un po’ come Mattia Pascal e Adriano Meis. La stessa persona che vive due vite simili eppure completamente diverse. Non potevo immaginare ricchezza maggiore.

Per imparare la lingua ho seguito un corso intensivo di 5 mesi. Tre ore al giorno per tre giorni a settimana. In più, ho chiesto a tutte le persone intorno a me, che gentilmente si sforzavano di parlarmi in inglese, di parlarmi solo in olandese.

quaderno con traduzioni di parole dall'olandese all'italianoPiù o meno nello stesso periodo ho iniziato a lavorare. I soldi della borsa di studio stavano per finire. Ho trovato lavoro nel ristorante dove lavorava anche Carolien. Il proprietario di questa splendida tenuta si rivelerà una delle figure più importanti nei miei primi anni qui.

Ho iniziato come lavapiatti. Passavo le ore lavorando nella mia bolla non capendo una sola parola di ciò che si diceva intorno a me. Se l’olandese è difficile, immagina il dialetto. Il proprietario si assicurava che tutti mi parlassero in olandese, anche se all’inizio non capivo niente.

Il primo anno è stato terribile. L’olandese ricorda in alcuni suoni il tedesco, che nel nostro immaginario collettivo non suona esattamente come una lingua amichevole. Suoni aspri e duri che in italiano non esistono. Dittonghi da imparare, regole grammaticali, verbi modali, regolari e irregolari.

Ho adottato metodi creativi per esercitarmi. Ho iniziato a comprare fumetti. Dialoghi brevi e pensati per bambini. L’ideale. Oppure le parole intrecciate. Quei puzzle di lettere in cui devi cercare una lista di parole. Avevo un dizionario di olandese per stranieri. Cercavo le parole nel puzzle, poi ne cercavo il significato sul dizionario. Riportavo tutto su un quadernino che usavo per le esercitazioni. In questo modo lavoravo sull’ortografia e il vocabolario allo stesso tempo.

Dopo il primo anno, ho iniziato ad avere sprazzi di “comprensione”. In momenti ancora random, capivo cosa veniva detto alla radio. Oppure ciò che due persone per strada si erano appena dette. Quando qualcuno mi parlava, capivo sempre meglio cosa dicessero. Rimaneva il problema del rispondere. A quel punto la maggior parte delle mie risposte era “ja” o “nee”, cioè si o no. Spesso mi buttavo, non essendo sicuro di aver capito bene cosa mi veniva detto.

Poi è successo senza che me ne accorgessi. Quelle due parole che capivo alla radio sono diventate 4, poi 6, poi 8. Ero in grado di comprendere intere conversazioni. Le mie frasi di risposta diventavano sempre più elaborate. Ho iniziato a guardare film in lingua originale con sottotitoli in olandese. Anche a casa, abbiamo iniziato a parlare sempre più olandese. Senza neanche accorgermene, era diventata la mia lingua principale.

Dopo soli 5 mesi sono stato in grado di fare l’esame per il certificato B1, superandolo al primo tentativo con ottimi risultati.

L’effetto domino era ormai partito: parlando di più la lingua ero in grado di seguire degli studi per ampliare le mie possibilità lavorative. È qui che ho deciso di iscrivermi all’ArtEZ Conservatorium di Enschede per prendermi una laurea e diventare insegnante di musica.

Grazie ai titoli maturati in Italia ho potuto seguire il corso in 2 anni anziché 4. L’unica condizione per potermi laureare era presentare il certificato di lingua olandese B2. Per ottenerlo avrei dovuto sostenere 4 esami di stato (ascolto, orale, scrittura e lettura).

Per prepararmi non ho seguito nessun corso, ho solo incrementato le modalità di utilizzo dell’olandese.  Potendo interagire nella lingua locale in ambienti ho potuto imparare tanti vocaboli. Ascoltando e ripetendo ho lavorato sulla pronuncia. Questi processi, dapprima lenti e impegnativi, sono diventati via via più veloci.

Ho capito di essere pronto per l’esame di stato quando mi sono trovato più e più volte a pensare in olandese. Durante un dialogo non avevo più il passaggio in cui pensavo ad una frase in italiano e cercavo il modo migliore per tradurla. Le frasi di cui avevo bisogno mi venivano in mente direttamente in olandese.

Ho sostenuto l’esame a Zwolle e sono riuscito a passarlo con un ottimo punteggio. Dopo qualche giorno ho ricevuto il diploma a casa.imparare l'olandese a livello B2

L’effetto domino continuava la sua corsa. Pochi mesi dopo la laurea sono stato assunto presso un liceo dove lavoro tuttora. L’integrazione nel tessuto sociale olandese è pressoché perfetta.

Conclusioni

Imparare una lingua straniera vuol dire aprire le porte di un mondo fino ad allora inaccessibile. La cosa che mi preme sottolineare, è che non si tratta solo del mondo lavorativo, ma anche (e forse soprattutto) di quello intimo e personale.

Mi ascoltavo utilizzare suoni nuovi per esprimere sentimenti, sensazioni, volontà, rabbia. Nuovi suoni e parole che hanno portato alla luce sfumature della mia personalità che sarebbero altrimenti rimaste nascoste per sempre.

La disciplina nel praticare una lingua sconosciuta e foneticamente distante dall’italiano. La creatività nel cercare modi efficaci per farlo. La tenacia di puntare un obiettivo e fare tutti i passi necessari per raggiungerlo.

Se stai considerando di trasferirti nei Paesi Bassi, ti suggerisco di leggere i miei 5 consigli per trasferirsi nei Paesi Bassi.

Lavorare nei Paesi Bassi: l’impegno premia sempre

Sono arrivato nei Paesi Bassi a 32 anni. Un mercato del lavoro totalmente nuovo ed estraneo, una lingua sconosciuta e la spada di Damocle dell’essere ormai fuori mercato.

Invece di scoraggiarmi, ho accettato la sfida.

Imparare l’olandese il più velocemente possibile mi ha aperto porte altrimenti non disponibili. Questo c’è da dirlo subito. Quello olandese è un mercato del lavoro che punta molto sulla qualità delle persone anziché sul numero. Intorno a me vedevo persone interessate alla mia esperienza di vita. La vedevano come un valore aggiunto alle mie competenze specifiche per un dato lavoro.

Sono molto grato di aver riconquistato la fiducia nella mia individualità.

Il primo lavoro che ho avuto è stato come lavapiatti nel ristorante in cui lavorava anche mia moglie Carolien durante i suoi studi.

Non avevo mai lavorato nella ristorazione, ma in un modo o nell’altro sono rimasto affascinato dalla cultura della cucina e dal tipo di lavoro che c’è dietro. Passavo le ore lavorando nella mia bolla non capendo una sola parola di ciò che si diceva intorno a me.

Avevo sentito che il proprietario era alla ricerca di un aiuto cuoco. Appena la lingua me lo ha permesso, mi sono fatto coraggio e mi sono candidato. Da quel giorno sono passato da lavapiatti ad aiuto cuoco.

Ho imparato tantissimo. Soprattutto per quanto riguarda il lavorare sotto stress e l’ottimizzazione dei processi.

Lentamente ma inesorabilmente è iniziato un processo di aggiornamento della mia vita. Me ne accorgevo quando parlavo con i miei amici italiani al telefono.

Alcune dinamiche e abitudini che prima erano anche mie, non mi appartenevano più. Ricordo una leggera sensazione di smarrimento nel realizzarlo.

Sapevo cosa non ero più, ma ancora non sapevo chi o cosa stessi diventando.

Per quanto mi piacesse, non ero di certo venuto in Olanda per abbandonare la musica e lavorare nella ristorazione. Avendo una stabilità economica, avevo la lucidità di potermi guardare intorno e fare piani per il futuro. Gli olandesi amano fare networking e premiano l’intraprendenza. Parlando con amici e famigliari, sono entrato in contatto con un insegnante di musica che mi ha invitato a passare una giornata al lavoro con lui. Avrei potuto vedere in prima persona di cosa si trattava e se veramente quel lavoro potesse fare al caso mio.

Mi reco puntuale all’appuntamento e vengo accolto in una struttura bellissima, di quelle che vediamo in televisione. Vengo subito rapito dall’atmosfera, dall’energia che viaggia in ogni classe, in ogni corridoio. La giornata passa troppo velocemente. Io ne volevo ancora.

Tornato a casa ne ho parlato con Carolien. Per diventare insegnante di musica avrei dovuto prendere un’altra laurea. Il corso era ovviamente in olandese e durava quattro anni. Due anni se in possesso di titoli musicali.

Davanti a me avevo l’ennesimo investimento di tempo, denaro ed energia.

Non sarebbe stato di certo il primo.

Ho fatto il test d’ingresso. Dopo una settimana mi hanno comunicato che ero stato accettato. C’era solo un problema: per conseguire la laurea dovevo avere un certificato di lingua olandese B2. Avrei potuto iniziare il corso, ma avrei dovuto conseguire e consegnare il certificato prima della conclusione degli studi. Avrei dovuto lavorare quattro giorni a settimana, andare a lezione gli altri tre e prepararmi per l’esame di stato.

Ok” mi sono detto, “questo è quel che c’è da fare e questo farò”. Niente fronzoli, niente scuse.

Seguire le lezioni in olandese è stato un boost per la lingua. Ancora di più svolgere tirocinio nelle scuole primarie. Mi sono trovato per la prima volta davanti a una classe di bambini che si aspettavano che io dicessi qualcosa. Questa esperienza avrebbe potuto spaventarmi, invece mi ha motivato tantissimo.

Sono sempre stato molto sincero. Quando spiegavo che ero nei Paesi Bassi da un paio di anni e che stavo imparando la lingua ricevevo sempre incoraggiamenti e aiuto. Spiegavo che fare errori era il mio unico modo per imparare. Non sono stato mai deriso.

Durante l’epidemia di Covid-19 c’era molto meno lavoro al ristorante. Ho trovato lavoro alle poste come operatore di macchina per l’organizzazione della posta in entrata. Orario di lavoro: 03:45-09:00. E si, leggi bene, le quattro meno un quarto di mattina. Per sei mesi sono andato a letto alle 20:00 per svegliarmi alle tre di notte per uscire con la bici dopo mezz’ora.

Il primo anno ho superato tutti gli esami di laurea. Ora dovevo risolvere il problema del certificato B2. Per ottenerlo avrei dovuto fare degli esami di stato. Questi esami ci sono in determinati momenti dell’anno. Quattro sezioni – orale, scrittura, lettura e ascolto – da affrontare separatamente, in giorni diversi. Il certificato arrivava al superamento di tutte le sezioni.

Il livello B2 è significativamente più alto del B1. Mi iscrivo alla prima sessione disponibile e continuo ad esercitarmi con i miei modi creativi.

Sono riuscito a superare tutti gli esami al primo colpo, con un ottimo punteggio. Ero felicissimo. Ora potevo procedere a laurearmi.

Per la tesi ho progettato un’app di realtà aumentata per facilitare l’apprendimento del pianoforte. L’idea mi è venuta dopo aver seguito un corso di applicazione della tecnologia nell’educazione musicale.

Nel frattempo ho trovato lavoro in una piccola scuola di musica ad Arnhem. Qui ho potuto sperimentare tutto quanto imparato nei due anni precedenti. Ho iniziato a lavorare di meno al ristorante (dove il lavoro era di nuovo aumentato).

Ad ottobre del 2021 vedo un annuncio di lavoro nel liceo in cui avevo svolto tirocinio pochi mesi prima, in piena pandemia. Cercano un insegnante di Educazione Artistica e Culturale. Una materia bellissima in cui gli studenti fanno conoscenza con tutte le forme d’arte e cultura.

Decido di candidarmi e scrivo una lettera di motivazione che allego al curriculum. Qualche giorno dopo vengo invitato per un colloquio.

Due settimane dopo ricevo una telefonata mentre ero al lavoro al ristorante. “Sono felice di comunicarti che sei stato assunto”, mi dice la team leader “puoi iniziare tra due settimane?”cartellino di lavoro nei Paesi Bassi

Rientro nel ristorante con il cuore in gola. Entro in cucina e glielo dico al proprietario.

«Congratulazioni di cuore» mi dice, «quando dovresti iniziare?»

«Tra due settimane, ma non potrei visto che dovrei darti un preavviso di un mese per licenziarmi»

«Hai lavorato duramente per arrivare a questo risultato. Non sarò di certo io a crearti problemi. Puoi iniziare tranquillamente tra due settimane col nuovo lavoro. Noi qui ce la caveremo.»

Ricordo ancora le lacrime di gratitudine al sentire queste parole.

Ho iniziato 3 anni fa come insegnante di CKV (nome della materia in olandese). Quest’anno ho firmato un contratto a tempo indeterminato come insegnante di musica in un’altra sede della stessa scuola.

Sempre 3 anni fa ho aperto la mia scuola di batteria MoreDrums a Deventer, dove viviamo.

Ad oggi ho una settimana lavorativa di 26 ore e una stabilità finanziaria che mi permette di guardare al futuro con una certa tranquillità, godendo a dovere del tempo con mia moglie e mio figlio.

La costanza e l’impegno pagano sempre. Il resto sono solo scuse.

5 consigli per trasferirsi nei Paesi Bassi

5 consigli per trasferirsi nei Paesi Bassi

Riflettendo sulla mia esperienza, ho deciso di raccogliere 5 consigli per trasferirsi nei Paesi Bassi. Per avere il giusto contesto, ti consiglio di leggere anche gli altri articoli, troverai i link nel testo e in fondo alla pagina.


Trasferirsi in un altro paese vuol dire entrare in un’altra realtà. Altre usanze, altre abitudini, altre regole. Altri modi di guardare alla vita e alle relazioni. Un’altra lingua.

Sembra una frase fatta, ma molti expats sembrano ignorarla.

Sono abbastanza maturo da non essere esterofilo. Non credere a chi dice che fuori dall’Italia sia tutto migliore e perfetto. Sono la rabbia e l’insoddisfazione che parlano.

Confrontare due culture ha una contraddizione in termini che non mi ha mai ingannato. Sono appunto due culture diverse formate da secoli di dinamiche diverse e quindi non confrontabili. Bisogna conoscerle e riconoscerle per capire se fanno o meno al caso nostro ed eventualmente scegliere quella che fa più al caso nostro.

Ma questo richiede coraggio e forza. Lamentarsi è sicuramente più facile.

Ho raccolto qui 5 consigli che spero potranno esserti utili nella tua esperienza:

infografica con 5 consigli per trasferirsi nei Paesi Bassi

  1. Impara il prima possibile la lingua. Imparare l’olandese mi ha dato sbloccato possibilità chiuse a molti altri expats che conosco. In più è una questione di rispetto verso la società che ti ospita.
  2. Non cercare altri connazionali. Finiresti per continuare a cercare l’Italia nei Paesi Bassi, auto-ghettizzandoti. Uno spreco di energie e soprattutto di possibilità. Avresti ancora meno spunti per praticare la lingua e meno contatti “autoctoni”.
  3. Costruisci un network. Per gli olandesi il network è molto importante. Raramente ho visto gente così entusiasta di mettere in contatto persone con gli stessi interessi. La mia scuola di batteria è nata dopo aver conosciuto un insegnante tramite una percussionista con la quale suonavo.
  4. Regola il prima possibile l’iscrizione al comune di residenza e l’assicurazione sanitaria. Avvia il prima possibile le pratiche per richiedere il codice fiscale (BSN) e il DigiD (simile allo Spin). Questo ti darà la tranquillità necessaria per preparare l’ingresso nel mondo del lavoro. Se deciderai di rimanere a lungo, considera l’iscrizione all’AIRE.
  5. Trasferisciti per un periodo “di prova”. Io l’ho fatto tramite l’Erasmus, ma ci sono anche altri modi ovviamente. Tutto sembra più bello quando lo guardiamo dall’esterno. Prenditi un periodo di tempo per fare l’esperienza in prima persona. Un paio di mesi dovrebbero bastare per capire se questo Paese faccia al caso tuo o meno.
descrizione dei membri della famiglia

La nascita di mio nipote

La nascita di un nipote, specialmente del primo, è quanto di più vicino ci possa essere alla nascita di un figlio. Il 2023 si è concluso nel migliore dei modi, con l’arrivo di mio nipote Raffaele.

La mia passione riportare i fatti per come sono accaduti ha in realtà radici lontane nel tempo. Quando mia sorella Giada è venuta al mondo avevo 8 anni. Ho preso un foglio a righe e una penna ed ho scritto la “Cronaca di Giada”. In 4 pagine ho descritto tutto quanto successo il 20 maggio del 1993.

Scrivere è il mio modo di lasciare il segno, di dire “Io c’ero e questo è quello che ho visto”. Sapere che qualcuno gioverà delle mie parole, del leggere le mie esperienze, sembra dare una direzione alla mia vita. Passiamo tanto tempo a distrarci, ad illuderci che la felicità arriverà quando avremo raggiunto un determinato status, o comprato una certa cosa. La cosa che sto pian piano comprendendo nel profondo, è che la Vita vera si annida proprio in quei momenti di distrazione.

E allora io li scrivo. Io scrivo tutto. Scrivo delle esperienze più belle (come la nascita di mio figlio) tanto quanto di quelle più brutte (come la perdita di nostra madre).

Questo è il racconto della nascita di mio nipote:

Cronaca di Raffaele

La cronaca di Raffaele inizia sabato 30 dicembre alle 17:25.

Io e nonno Pietro siamo appena arrivati alla parrocchia di Santa Siforosa a Tivoli Terme per un concerto della corale Santa Caecilia. Nonno canta tra i tenori ed io posso partecipare come percussionista su alcuni brani.

Appena arrivati squilla il telefono di nonno:

«Papà sono Giada, mi si sono appena rotte le acque!»

Appena tuo nonno me l’ha detto, ho iniziato a girare da una parte all’altra incredulo, felice e profondamente grato per questo miracolo a cui potevamo assistere.

Ho chiamato tua madre per sentirla. Mi ha rassicurato e spiegato che si stava preparando per andare all’ospedale.

Il concerto è iniziato ed è andato benissimo. È stato difficile rimanere concentrati pensando a voi. Subito appena finito ho telefonato a tuo padre per avere notizie. La situazione era relativamente stabile, volevi ancora prenderti del tempo prima di arrivare. Non era ancora il caso di venire all’ospedale.

Siamo tornati a casa ed io ho dovuto mettere via il telefono per evitare di scrivere o telefonare ogni cinque minuti.

La notte è passata velocemente, almeno per noi. Al mattino ho afferrato subito il telefono per vedere se ci fossero novità. Non avevi ancora fretta di arrivare tra noi. Abbiamo telefonato a papà per capire cosa fare. La cosa migliore sarebbe stata partire appena saresti arrivato.

La mattinata è passata lentamente. Tuo cugino Alexander ci ha intrattenuto con i suoi gridolini. Gli abbiamo detto che stavi arrivando, ma secondo me lui lo sapeva già.

Ora sono le 12:40 del 31 dicembre 2023. Alle 12:36 papà ci ha mandato un messaggio dicendoci che tutto era pronto per il tuo arrivo.

Io sono inondato da tantissime emozioni. Spesso non riesco a verbalizzarle e quindi mi commuovo. Mi perdo ad immaginare il tuo visetto. L’energia che si respirerà nella stanza dove stai per arrivare. Penso a tua madre. Il cuore mi si stringe nell’Amore che provo per lei dal primo momento che l’ho vista. Lotto contro l’inutile bisogno di voler fare qualcosa per lei. Il pensiero si allarga e penso al mondo in cui stai per arrivare. A tutte le persone che incontrerai. Alle persone che non incontrerai in questa realtà, ma che magari hai già incontrato dove sei ora e che sentirai presenti ogni singolo momento della tua vita. Sogno il momento in cui potrò stringerti tra le mie braccia e guardare tua madre e tuo padre pieno di orgoglio e gratitudine.

Dopo pranzo mi sono messo a letto preda del mal di testa. Alle 15:01 ho scritto un messaggio per chiedere aggiornamenti. In quel momento è successa la magia, Raffaele. Io ti racconto i fatti. A te spetterà interpretarli:

Una sensazione strana si è impossessata di me lenta ma inesorabile. Il mio cuore ha iniziato a battere più velocemente mentre immagini di tua madre e di te mi inondavano la mente. Ero sicuro che stessi arrivando, come se fossi li con mamma e papà. Non so né come né perché, ma io lo sentivo. Sapevo che stavi arrivando.

Non riuscivo più a stare sdraiato. Il cuore era arrivato a più di 100 battiti al minuto. Sono andato di là dove c’erano anche zio Giancarlo e zia Tiziana. L’ho guardata e le ho detto “Io mi sento che sta succedendo ora”. Erano le 15:15.

Una notifica attiva lo schermo del telefono. Lo afferro senza pensarci troppo. Erano le 15:18. Tuo papà ci ha mandato il video in cui ti abbiamo visto e sentito per la prima volta. Un minuto prima, alle 15:17 eri venuto alla luce. Eri tra noi!

Ho gridato “È nato! È nato!”

Tutti si sono avvicinati per vedere il video. Ci siamo commossi tantissimo. Nonno Pietro piangeva di felicità. L’ultima volta che gli ho visto questa espressione è stato quando è nata tua madre. “Papà non sapeva se ridere o piangere” ho scritto nella Cronaca di Giada. Allora avevo 8 anni e non capivo come ciò fosse possibile. Oggi, tenendo in mano il telefono e accarezzando tuo nonno che piange mentre il mio petto vuole esplodere di felicità e la vista è annebbiata dalle lacrime, capisco. Non chiedermi di descriverlo. È una magia che ti auguro con tutto il cuore di provare a tempo debito.

Ci siamo preparati velocemente e nel giro di dieci minuti sedevamo in macchina. Zio Giancarlo e zia Tiziana erano già pronti e sono partiti prima di noi.

Alle 16:58 abbiamo incontrato papà che ci ha accompagnato dentro. Alle 17:03 ti abbiamo visto per la prima volta. L’infermiera e papà ti stavano accompagnando in reparto. Che emozione profonda, Raffaele. Vederti per la prima volta dopo averti sognato così a lungo.

Poco dopo abbiamo potuto vedere tua madre. Appena sono entrato mi sono seduto vicino a lei e le ho preso la mano. Davanti a me avevo una donna che aveva appena compiuto il miracolo della vita. Le ho chiesto come stava mentre sentivo tante emozioni diverse crescere dentro di me. Tutte le parole che avrei voluto dirle sono annegate nelle lacrime che non riuscivo più a trattenere.

«Perché piangi amore» mi ha detto tua madre «c’è da essere felici oggi».

Ed io infatti lo ero, tanto da non riuscire a trovare le parole. Ero felice di averti conosciuto, felice che mamma stesse bene. Mentre tenevo la mano di tua madre e la baciavo, ho rivisto tutta la nostra vita insieme. 30 anni di vita. L’ho rivista dietro il vetro del nido dell’ospedale. L’ho rivista nella carrozzina poggiata sulla poltrona di nonno e nonna quando è arrivata a casa per la prima volta. Ho ricordato il suo profumo quando l’ho presa in braccio per la prima volta. Ho rivisto i suoi capelli nerissimi e ricci crescere. Le sue scarpette nere di vernice. Il bauletto del primo giorno di asilo. Il grembiule delle elementari. L’Amore incondizionato che ho da subito provato per lei. Lo stesso amore che ti prometto con queste parole.

Tantissimi ricordi si sono accavallati. Tanta vita mi è passata davanti agli occhi e dentro il cuore. Non sarei mai riuscito a dirglielo.

«Che cosa hai sentito quando te l’hanno poggiato sul petto?» le ho chiesto.

«Una sensazione di pienezza, di vita, di amore. Sono rimasta spiazzata, l’ho guardato e volevo quasi  chiedergli “ma sei tu?”. Poi dopo un po’ ha aperto gli occhi e mi ha guardato anche lui. Quella è una sensazione troppo bella.» mi ha detto mamma. «Avevo paura del dolore, ma quando te lo rimettono tra le braccia ti risenti completa».

Mi sono ripreso e sono uscito per far entrare zia Carolien. Sono andato da tuo papà per parlargli. Era seduto in sala d’attesa con tua sorella Rebecca in braccio.

«Qual è stata la cosa che ti è rimasta più impressa?» gli chiedo.

«Eravamo tranquilli, il personale ha sempre mantenuto la calma e l’ha trasmessa a Giada. Alla fine è andato tutto bene e quello è l’importante.»

«Qual è stata il primo pensiero che ti è venuto in mente quando l’hai visto per la prima volta?»

«Che era bellissimo.» mi ha risposto con gli occhi della felicità.

nonno, fratello e sorella con il nipotino appena natoAlle 17:55 le infermiere hanno portato mamma in reparto. In corsia a fare il tifo c’era anche tuo cugino Alexander, in braccio a nonno Pietro.

L’abbiamo raggiunta pochi minuti dopo e siamo entrati in stanza a turno. Tua madre mi guarda e mi fa:

«Io ho fame. Voglio mangiare. Apri quella busta, c’è un panino al prosciutto»

Eseguo.

Il panino è durato pochi morsi, ridando colore alle guance di mamma.

Alle 19:07 ti hanno portato in stanza da noi e ti abbiamo rivisto. Quando hai iniziato a piangere mamma ti ha preso in braccio. L’ho vista per la prima volta insieme a te e quell’immagine non la dimenticherò mai. Ho provato a fissare tutto in una foto, ma non si può.    

Dopo un po’ nonno ha dato il cambio a zia Carolien che è venuta ad ammirarti.

Poco dopo ci siamo decisi ad andare via. Con zio Giancarlo e zia Tiziana abbiamo stabilito un menù d’emergenza per la fine dell’anno e ci siamo dati appuntamento a casa di nonno Pietro e nonna Giovanna. Sarebbe stato un capodanno speciale, vissuto con la consapevolezza di aver ricevuto il dono più bello che potevamo aspettarci. Non posso pensare ad un augurio migliore, ad un inno alla vita più profondo e autentico di una nuova vita che arriva a benedire le nostre.

Il pomeriggio del 1 gennaio siamo tornati a trovarti. Io, zia Carolien, Alexander e Truus saremmo ripartiti il giorno dopo. Ho provato a spostare il volo, ma non ce n’erano di disponibili prima che zia dovesse tornare a lavorare.

Alle 16:21 ci siamo fatti la prima foto insieme: io, te, Carolien e mamma.

Alle16:38 del 1 gennaio 2024 ti ho preso in braccio per la prima volta. Ti avevo tra le mani così piccolo eppure così potente nella maestosità del miracolo che rappresenti.

Ti ho augurato ogni bene possibile. Che tu possa avere tutta la serenità di cui hai bisogno. Ti ho dato il benvenuto tra noi, con la promessa che nonostante le distanze, ci sarei sempre stato per te. Non vedo l’ora di farti conoscere cose nuove, andare insieme a  tuo cugino Alexander alla ricerca della bellezza. Imparare a trovarla in ogni giorno che passa.

In questi giorni di passaggio e di cambiamento mi trovo spesso a chiedermi quale sia la mia missione. Mi chiedo se ne abbia effettivamente una. A volte intravedo la risposta, altre no. Quello che voglio trasmetterti con questo scritto è la memoria. Quando sarai grande, quando ti sentirai smarrito o indeciso, mi auguro che queste parole e quanto descritto qui ti aiutino a ritrovarti. Sono convinto che queste parole ti giungeranno nuove ogni volta che le leggerai in una fase diversa della tua vita.

Contengono molto di più dei fatti che sono successi quando sei venuto al mondo. Starà a te trovarli tra le parole.

Ti lascio la possibilità di interpretarle come vorrai e quando vorrai, attingendo alla tua fantasia ma soprattutto al tuo cuore, che tutti insieme riempiremo ogni giorno di Amore.

Sei proprio un caro nipotino, eh! 😉

Con amore,

Zio Moreno

Foto di ciottoli sul bordo di un fiume

Variazioni (fallite) sullo schema delle poppate

Nel nostro schema delle poppate, l’ultimo biberon arriva alle 23. Negli ultimi giorni abbiamo notato che svegliare Alexander a quell’ora era sempre più difficile. In più, non finiva neanche la bottiglia.

Una nostra amica ha avuto lo stesso con suo figlio. Loro hanno preso la palla al balzo lasciandolo dormire. Compensavano la poppata in meno aumentando le porzioni delle altre. Da quel momento ha iniziato a dormire tutta la notte.

Mentre ce lo raccontava eravamo persi nel ricordo dei bei riposi notturni. La possibilità di riaverli ci ha acceso come degli zombie.

«Stasera proviamo» ci diciamo decisi.

«Datevi un paio di giorni per vedere se funziona» ci consiglia la nostra amica.

Le altre poppate vanno come di solito. Arriviamo a quella delle 19, l’ultima quindi. Pieni di speranza lo mettiamo nella sua culla.

Arrivano le 23 e Alexander dorme beato. Ci guardiamo felici, con il cuore in gola. Pregustiamo la gioia di una notte di riposo. Ci crediamo veramente.

Andiamo a metterci a letto.

La prima volta si sveglia a mezzanotte e un quarto. Da lì ogni mezz’ora, a volte quarantacinque minuti. Ci alziamo diligenti per rimettergli il ciuccio e farlo riaddormentare. Ci riusciamo fino alle 3, quando dobbiamo arrenderci e farlo mangiare.

La giornata successiva è stata un incubo. L’illusione brucia insieme alla delusione. Siamo nervosi e stanchi. Ci trasciniamo per tutto il giorno. Fortunatamente non dovevamo lavorare.

Scegliamo comunque di continuare la prova. Non potevamo interrompere a metà l’esperimento.

La seconda notte è stata, se possibile, peggio della prima. Arriva una fase in cui il bambino riesce a resistere tutta la notte senza mangiare.

Noi ci rimettiamo in paziente attesa.

Foto di ciottoli sul bordo di un fiume

I primi vaccini

Il giorno dei primi vaccini è arrivato anche per Alexander. Qui nei Paesi Bassi (non so come funziona in Italia) i primi vaccini si fanno al terzo mese. Ha avuto due punture con vaccini contro:

– Difterite
– Pertosse
– Tetano
– Epatite B
– Poliomelite
– Pneumococco

Un bel cocktail direi.

L’appuntamento è alle 09:55. Bisogna arrivare un po’ prima per controllare peso e lunghezza.  Troviamo posto davanti all’entrata e ci dirigiamo verso lo studio. Alexander ha avuto una notte inquieta e abbiamo dormito male. Siamo entrambi nervosi.

Poggio il maxi-cosi su un tavolino. Carolien mette Alexander sul cuscino per togliergli i vestiti. Lui è curioso come al solito. Si guarda intorno molto attento, senza tralasciare le sue mani. Queste sono diventate interessantissime. Le controlla sempre meglio.

Peso: 5585gr

Lunghezza: 58,1cm

In un mese è cresciuto di 900 grammi e 3,5 cm. I parametri sono perfettamente in linea con le curve di riferimento.

Entriamo dalla pediatra. Non l’avevamo ancora conosciuta. Alexander la accoglie con uno splendido sorriso sdentato. Mi sembra una donna molto diretta. Il suo sguardo passa da me a Carolien ad Alexander mentre beve rumorosamente il suo tè.

«Come va?» ci chiede puntandoci gli occhi addosso. So che lei sa. Lo sento.
«Intende con Alexander? Bene» dico. Non ho troppa voglia di parlare.
«Si ok, e in generale invece?» Il suo modo di essere diretta mi convince a vuotare il sacco.
«Siamo molto stanchi dottoressa. Alexander ha avuto una notte inquieta. Negli ultimi giorni piange più spesso. Crediamo sia entrato nel prossimo scatto cognitivo.»

Lei ci ascolta e risponde alle nostre domande. Ci da dei consigli utili su come gestire le poppate e le notti. L’unica domanda su cui glissa (così come praticamente tutti gli altri dottori) è sul lasciare piangere il bambino una volta messo nella culla. Ne Il libro che vorresti i tuoi genitori avessero lettoPhilippa Perry spiega come il lasciare piangere i neonati fino ai 6 mesi possa creare scompensi emotivi che esploderanno durante l’adolescenza o anche la vita adulta. Eppure amici e conoscenti ci dicono che non è un dramma lasciarlo piangere. “Certi bambini piangono fino ad addormentarsi.” Lo sentiamo anche dalla pediatra.

Il messaggio tra le righe è che bisogna provare e vedere cosa funziona al meglio per il proprio figlio.

La dottoressa si alza e inizia a visitare Alexander, che nel frattempo l’ha osservata curioso. Dopo qualche minuto, si risiede soddisfatta.

«Procedo con i vaccini» ci dice prendendo l’occorrente. Alexander continua ad osservarla mentre gioca con le sue mani. È sdraiato sul tavolo e io siedo dietro di lui. Carolien siede accanto a me.

La pediatra trasferisce il contenuto di due flaconi in due siringhe e le poggia sul tavolo. Prende un batuffolo di ovatta e una delle due siringhe. Senza troppi convenevoli disinfetta la parte superiore della coscia sinistra di Alexander e inserisce la siringa, svuotandola. Guardo Alexander. Reagisce dapprima curioso, come sempre. Poi arriva il dolore. Un urlo che ci ha stritolato lo stomaco. Non ha ripreso fiato per diversi secondi.

Senza perdere tempo e per niente impressionata dal pianto, la dottoressa ripete il processo sull’altra coscia.

Giusto il tempo di riprendere fiato per buttare un altro urlo.

Appena finito la dottoressa lo massaggia un po’ e ci dice di prenderlo in braccio. Carolien, molto intelligentemente, aveva preparato un biberon, visto che si avvicinava l’ora della poppata. Lo prendo in braccio e glielo do. L’effetto è immediato. Smette di piangere e si rilassa mentre svuota la bottiglia. I suoi occhi rossi e pieni di lacrime ci guardano. I nostri cuori si stringono.

Non potrò sempre evitare che ti facciano del male. Ma sarò sempre lì a sorreggerti.

Foto di ciottoli sul bordo di un fiume

Giornata di prova al nido

Oggi abbiamo avuto la giornata di prova al nido con Alexander.

A settembre rientreremo al lavoro. Pur avendo provato ad incastrare gli orari del lavoro, non possiamo fare a meno del nido per 2 giorni e mezzo. I tempi di attesa per ottenere un posto sono lunghissimi, per cui ci eravamo messi alla ricerca già da metà gravidanza.

Abbiamo girato un paio di nidi e quando siamo usciti dall’ultimo ci siamo guardati e ci siamo detti Ok, è questo!. L’ambiente ci è piaciuto molto. Il personale ci ha fatto un’ottima impressione. Lavorano con gruppi verticali, in ogni classe ci sono bambini dai 0 ai 4 anni secondo determinate proporzioni. Hanno esperienza con bambini poliglotti. Sono in costante contatto con i genitori e fanno tante attività all’interno e all’esterno. Si trova a un quarto d’ora a piedi da casa, il che non guasta affatto.

Qualche settimana fa ci mandarono un invito via mail per invitarci ad un colloquio conoscitivo ed una mattinata di prova per Alexander. Quella mattinata è arrivata oggi.

L’appuntamento è alle 09:30. Alexander vuole fare le cose per bene e quindi ha pensato di svegliarsi alle 4. Appena scesi di sotto però ci ha ripensato e si è rimesso a dormire. Invece di risalire mi sono allungato sul divano ed ho provato a riposare un po’.

Il biberon è arrivato alle 05:45, dopodiché siamo tornati di sopra e siamo riusciti entrambi a dormire un’altra oretta.

La maestra Leonie ci accoglie sorridente e ci fa accomodare nell’ufficio. Iniziamo a discutere alcuni dettagli, ricapitolando orari e giorni. Alexander siede in braccio a me ed è rapito dalla bellissima lampada appesa sul tavolo. Poi guarda curioso Leonie. La buona impressione di qualche mese fa è confermata.

«Vogliamo andare dal resto del gruppo?»

Il colloquio era finito e la mattinata di prova stava per iniziare.

«Certo» rispondiamo con una sensazione mista di curiosità e malinconia.

Entriamo nella sala dei “Leoni Marini”. Questo è il gruppo a cui appartiene Alexander. Ci sono altri quattro bambini seduti a tavola con la maestra Marian. È l’ora della frutta, che si mangia seduti tutti insieme dopo aver cantato una canzoncina.

«Dal quarto mese gli daremo i passati di frutta. Fino ad allora seguirà il suo schema con il biberon» ci spiega Leonie.

Alexander si guarda intorno curioso, impegnato con il suo ciuccio e le sue mani. Nessuna traccia di ansia o stress. Rilassato e curioso. Leonie ci mostra la culla sospesa che utilizzano per fare addormentare i più piccoli e la carrozzina per portarli fuori in caso di attività all’aperto. Ci spostiamo nella stanza con i lettini. Ogni bambino ha un cestino dove vengono riposti vestiti di ricambio, biberon e sacco a pelo.

Torniamo nella sala, Marian si avvicina e inizia a parlare con Alexander. Lui la guarda interessato e per niente spaventato.

«Volete salutarlo?» Leonie prende in mano la situazione. Io abbraccio Alexander e lo bacio. Carolien fa lo stesso. Poi lo passo a Leonie. Succede tutto velocemente, non abbiamo quasi tempo di registrarlo e forse è meglio così.

Alexander ci guarda curioso e pacioso dalle braccia di Leonie. Carolien fa una foto dopo aver chiesto il permesso. Un paio di secondi dopo ci ritroviamo a camminare verso la porta. Leonie si sposta con Alexander verso gli altri bambini e inizia a presentarglielo. Noi ci giriamo un paio di volte e riusciamo a non fermarci. Lo facciamo dopo essere usciti dalla sala, prima di arrivare al portone.

Guardiamo i bambini stringersi intorno ad Alexander. Carolien non riesce a trattenere una lacrima. Io la guardo e mi commuovo pensando a tantissime cose tutte insieme.
Usciamo e passiamo davanti alle finestre. Bambini e maestre ci salutano.

Torniamo a casa e ci prepariamo un bel caffè. Ce lo beviamo in giardino, al tepore del sole della tarda mattinata.

Guardo mia moglie, penso a mio figlio.

La contentezza bussa discreta ed io la lascio entrare.

Foto di ciottoli sul bordo di un fiume

Andiamo in vacanza!

Da oggi siamo in vacanza. Ho riflettuto parecchio sul tenere il blog anche in questi giorni. Poi ho deciso di non farlo.

Partiremo noi 4, poi mercoledì ci raggiungeranno nonno Pietro, zia Giada e zio Salvatore. Abbiamo affittato una villa al lago e non voglio sprecare un singolo momento, neanche per qualcosa di così bello come tenere un blog per mio figlio. Preferisco prendere appunti e scrivere un resoconto quando torneremo a casa.

Sono sicuro che mi comprenderai.

A presto!

Foto di ciottoli sul bordo di un fiume

Quando le giornate iniziano alle 3

La giornata di oggi è stata molto pesante. È iniziata alle 3 di notte, Alexander non riusciva a dormire e ovviamente doveva condividerlo con tutti. Abbiamo provato di tutto: dargli il ciuccio, cullarlo nel lettino, cullarlo in braccio. Ho addirittura provato a cullarlo fino a farlo addormentare per poi portarlo nella sua cameretta.

No way.

Un pianto continuo e infastidito arrivava dopo massimo 2 minuti.

Probabilmente è stata una combinazione di fattori. Da due giorni abbiamo interrotto l’infacol (contro le coliche gassose). I due puck-a-baby non erano ancora asciutti e ieri per la prima volta ha dormito in un sacco a pelo con le maniche. Le braccia erano quindi libere e muovendole si svegliava di continuo. Magari lo scatto cognitivo non è ancora passato.

L’esito è scontato: abbiamo perso amaramente, alternandoci nel calmarlo e provare a cullarlo.

Il risultato sono 3 ore piene di sonno, il resto fatto di porzioni di venti minuti in cui cadevamo addormentati per sfinitezza.

La giornata non è stata migliore. Ha dormito pochissimo, al massimo venti minuti a sessione. Ha avuto diversi pannolini “pieni”, molti più del solito.

Appena tornati a casa invece, gli abbiamo dato il biberon, l’abbiamo cambiato e messo nel suo letto.

Dorme come un angioletto.

Mi appresto a dargli l’ultimo biberon prima della notte, mentre sogno il letto e un sonno ininterrotto come un disperso nel deserto sogna un’oasi con una bella sorgente di acqua fresca.